Le storie di tre ricercatori ticinesi di alto livello rientrati a casa. Così biomedicina, oncologia e facoltà di medicina stanno calamitando talenti
La demografia fotografa 800 cervelli ticinesi in fuga all’anno: c’è chi non trova un lavoro adeguato, chi cerca più sicurezza. La buona notizia è il nuovo flusso contrario. Ecco le storie di tre ricercatori ticinesi al top che hanno deciso di rientrare in un cantone che è diventato competitivo nel loro settore: la ricerca in biomedicina, in oncologia. Un mondo in fermento.
Ticinese di nascita, ha fatto gran parte della sua vita professionale tra Berna, Ginevra e Barcellona; nel suo campo, le patologie di stomaco, intestino e fegato, è un vero esperto. Da tempo non tornava in Ticino, ma la facoltà di medicina ha cambiato le carte in tavola. «Sono stato via per 30 anni, mi sento quasi più bernese, ma il Ticino è diventato attrattivo, penso possa diventare competitivo con realtà sanitarie elvetiche di punta», dice il prof. Andrea De Gottardi, primario del nuovo servizio di gastroenterologia ed epatologia dell’Eoc, nonché professore ordinario alla facoltà di scienze biomediche all’Usi. Lo incontriamo ai Laboratori di Ricerca Traslazionale dell’Eoc a Bellinzona, dove dirige un team di ricerca. Il suo focus gira attorno a tre ambiti interconnessi: clinica, ricerca e didattica. «Oltre a curare i pazienti in ospedale, si crea nuova conoscenza grazie alla ricerca e la si trasmette agli studenti. La combinazione di questi tre fattori è straordinaria». Coordina un gruppo di ricerca che studia gli effetti di alcune cellule del sistema immunitario intestinale sulla regolazione del flusso sanguigno negli organi addominali. «Ci stiamo concentrando sugli effetti della flora batterica intestinale e, in particolare, sulle relazioni tra microbiota, intestino e fegato, anche verificando le possibilità di diagnosi legate alle disbiosi (gli squilibri tra i vari batteri)».
È da poco rientrato in Ticino dove, dice lui, si respira l’entusiasmo dei nuovi inizi, il fermento di una giovane facoltà di medicina e tutto ciò che genera tra studenti, dottorandi, lo stimolo a creare ponti tra clinica e ricerca per offrire una medicina di altissimo livello. «Sta nascendo una nuova realtà sanitaria, volevo esserci e partecipare a costruirla», spiega. Dopo gli studi di medicina a Losanna e Heidelberg, si è perfezionato in medicina interna e farmacologia all’Inselspital di Berna, poi in gastroenterologia ed epatologia a Ginevra e in Spagna. L’Hospital Clinic di Barcellona è stata una tappa importante: «È una piccola mecca dell’epatologia dove ho imparato tecniche di punta per lo studio del fegato in laboratorio e in ospedale. Una bellissima esperienza, ma il salario non mi avrebbe permesso di sostenere a lungo termine una famiglia di 4 persone». Negli ultimi 10 anni è stato caposervizio alla Clinica universitaria di chirurgia e di medicina viscerale dell’Inselspital. «La mia famiglia è rimasta a Berna, i miei due figli sono all’università, per ora faccio il pendolare e investo molto tempo ed energie in questa nuova sfida». Quando ha un momento libero va a volare. «Sto finendo il brevetto di pilota. Quando sei a 6-7mila piedi vedi il mondo da un altro punto di vista, i problemi diventano più piccoli e la bellezza più grande».
Dal macro al micro, dal cielo alle viscere. La carne al fuoco è tanta, col suo team di ricerca sta seguendo le traiettorie di 30 pazienti ticinesi che soffrono di una patologia cronica del fegato. È un progetto pilota che potrebbe migliorare la vita a tante persone. «Sono pazienti fragili, a volte scompensano. Formano acqua nell’addome, sviluppano un’infezione o un’emorragia. Di regola si arriva tardi, quando il paziente è già al Pronto soccorso». L’idea è anticipare gli eventi di scompenso, scoprendo quali sono i campanelli di allarme, così da intervenire prima. Ciascuno dei 30 pazienti è monitorato grazie a dispositivi da indossare (come gli orologi degli sportivi) che rilevano i parametri biologici (dalla frequenza cardiaca alla temperatura e altri). «Vorremmo tracciare quelle che noi chiamiamo traiettorie, cioè valori che nel corso del tempo definiscono la normalità e la differenziano da situazioni che possono essere patologiche».
Il livello della ricerca non ha nulla da invidiare a un centro universitario. «La facoltà si sta sviluppando, la prossima tappa dovrebbe essere l’ospedale universitario. Guardando al futuro, le locomotive del Ticino sono la biomedicina, l’informatica, l’intelligenza artificiale». Ma per crescere servono visioni forti e condivise e per essere competitivi servono più investimenti. «Un franco investito nella ricerca ne genera tre in termini di nuovi posti di lavoro, brevetti, scoperte. I risultati non si vedono subito. Bisogna dare il tempo a quanto si semina di crescere». Partecipare a un progetto così ambizioso richiede energia. «Ci sono momenti difficili, non lo nego, ma quando vedi dottorandi interessati, pazienti che stanno meglio, i risultati della tua ricerca riconosciuti dalla comunità scientifica, il desiderio è esserci, perché quello che stiamo costruendo avrà un impatto su chi verrà dopo. Con un futuro ospedale universitario si servirà meglio la popolazione. Dove si fa ricerca si cura meglio».
Ma com’è davvero la vita del ricercatore? Se lo sono chiesto in molti durante la pandemia. Dietro le quinte di tante scoperte c’è, senza dubbio, un mondo molto competitivo; nella ricerca, soprattutto sul Covid, la concorrenza internazionale è enorme. Si fanno sacrifici, infatti non esistono orari fissi, il ritmo lo dà la ricerca. Qualche gioia, tante frustrazioni e una buona dose di curiosità e voglia di percorrere strade nuove. «La vita da laboratorio non è mai noiosa, può essere stressante e devi imparare a gestire la frustrazione: quando una strada non funziona devi ricominciare da capo. Quando capita non devi demoralizzarti. Serve tenacia, devi essere uno che non molla mai…», ci spiega il ricercatore Jonathan Muri, 32 anni.
Il ticinese in piena pandemia è approdato all’Istituto di Ricerca in Biomedicina (Irb) di Bellinzona. Alle sue spalle ha lasciato il Politecnico di Zurigo, dove ha studiato biologia e fatto ricerca di base sul sistema immunitario. Ora è nel team dell’immunologo Davide Robbiani, che dal 2020 dirige l’Irb. Robbiani è rientrato in Ticino dopo 20 anni alla Rockefeller University di New York. Poco prima di lasciare l’istituto americano, ha pubblicato sulla rivista scientifica Nature un importante studio a partire dai campioni di sangue raccolti da persone che avevano avuto il Covid-19. È emerso che una piccola percentuale di individui risponde in modo ottimale al virus, producendo in grande quantità anticorpi che lo bloccano. Grazie all’analisi della composizione molecolare di questi anticorpi, i ricercatori hanno scoperto come alcuni di questi siano molto simili in persone diverse. Un passo avanti per i vaccini.
All’Irb si sta continuando a lavorare su alcuni di questi anticorpi. «Stiamo studiando gli anticorpi buoni (quelli che ci proteggono dal virus) e quelli che definirei cattivi, che durante la malattia possono peggiorare l’infezione, il decorso e la severità della malattia. Potrebbero anche essere la causa del long Covid che colpisce un malato su cinque», precisa Muri.
Sta facendo un post-doc, cioè un periodo (in genere, dai 2 ai 7 anni) presso uno o più laboratori. «Nel campo dell’immunologia, l’Irb non ha nulla da invidiare al Poli di Zurigo. C’è un ambiente stimolante e ci si aiuta tra colleghi». Lo precisa perché nel suo ambiente la concorrenza può essere feroce, chi arriva primo, pubblica su riviste scientifiche importanti e riceve anche i finanziamenti (i cosiddetti grant) dal Fondo nazionale svizzero per la ricerca scientifica o da altri enti, non solo svizzeri. Altrimenti, i finanziamenti non arrivano, o arrivano col contagocce, e le possibilità per il post-doc si riducono.
Quando era ragazzo, ci confida, voleva fare l’architetto, ora studia l’architettura del corpo umano. «Più analizzi, più capisci che è complessa, la biologia umana è un mistero, appena pensi di aver capito qualcosa, si aprono altre mille strade, è un percorso senza fine», dice con ammirazione. Anche sua moglie è biologa, si sono conosciuti all’università. Ed ora, da qualche mese è arrivato il piccolo Riccardo. «La famiglia è il mio hobby», dice sorridendo. «Per fortuna – aggiunge – mia moglie capisce cosa faccio e i miei orari». La sua futura vita professionale Jonathan Muri, la vede all’Irb. «Sono felice di essere in Ticino, amo il mio cantone. Mi vedo qui per i prossimi anni, la ricerca è appassionante, ci metto tutte le mie energie e speriamo di vedere presto i frutti».
Da cinque anni vive nella Grande mela, dove fa ricerca di base ad altissimi livelli, imparando tecniche innovative basate sulle cellule staminali pluripotenti per capire i meccanismi che regolano lo sviluppo tumorale: perché alcune cellule sono "competenti" a dare origine a tumori e altre no. Il suo focus è il melanoma, uno dei tumori alla pelle più aggressivi. Da Vernate al Politecnico di Zurigo per volare poi Oltreoceano e specializzarsi al Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York. Questa, in sintesi, la traiettoria professionale della ricercatrice Arianna Baggiolini, 34 anni, che ha deciso di rientrare in Ticino per mettere a frutto le sue competenze. Da settembre sarà group leader all’Istituto oncologico di ricerca. Una nuova vita inizierà a Bellinzona nei laboratori dello Ior, nell’edificio dell’Institutes of Science (Bios+). Un sogno che si realizza. Dopo tanti anni di ricerca gestirà un suo team. «Sono felice di questa opportunità, potrò continuare a fare ricerca di altissimo livello in Ticino. Il polo di ricerca in biomedicina che sta sviluppandosi a Bellinzona, mi fa sognare. C’è un enorme potenziale di crescita e vorrei contribuire a creare questa nuova realtà», spiega la ticinese. Ci sentiamo al telefono, visto che è ancora a New York.
La vita da ricercatore è irta di ostacoli, si naviga in acque tumultuose, tra una concorrenza spietata, la corsa a pubblicare per primi su riviste prestigiose per poter trovare nuovi finanziamenti per nuove ricerche. «Qui a New York sto imparando molto, è un’esperienza fantastica lavorare a livelli così alti, in un ambiente internazionale e multiculturale. Le modalità di lavoro sono diverse rispetto alle università elvetiche. Qui tutto è più dinamico. È molto istruttivo osservare approcci così diversi», aggiunge.
L’unico neo, di un’esperienza che giudica impagabile, sono i salari. Un post-doc in Svizzera è già considerato un ricercatore, mentre negli Usa è considerato ancora in formazione. «È difficile vivere a New York con la paga da post-doc, non è sostenibile a lungo termine». Per molti ricercatori europei, fare tappa negli Stati Uniti è quasi una via obbligata per accumulare una certa esperienza.
Nei piani di Arianna Baggiolini c’è comunque un rientro in Svizzera. « Prima o poi volevo rientrare. Con mio marito, anche lui ticinese, abbiamo valutato di stabilirci a New York, ma ci manca la Svizzera. Il mio obiettivo è continuare a fare ricerca, come indipendente, con un team. Pensavo alla Svizzera interna, ma la posizione allo Ior per me è ideale. Sono estasiata di tornare in Ticino».
Le sue giornate sono casa, lavoro e jogging a Central Park. «Può sembrare noioso, ma mi piace questa vita, sto tante ore in laboratorio ma è un ambiente così stimolante e dinamico che il tempo vola. Sono stati i cinque anni più intensi ed emozionanti della mia vita. Ho anche iniziato a fare jogging. Qui sono tutti fanatici della corsa. Ora lo sono pure io. Quando posso vado anche a qualche maratona», precisa la malcantonese.
La sua passione per la biologia è nata sui banchi del liceo a Lugano. «Mi piacevano le lingue antiche, ma c’è stato un docente di biologia che ha saputo accendere in me una grande passione». Dopo gli studi in biologia al Politecnico di Zurigo capisce che la sua via è la ricerca. «Ho fatto il dottorato di ricerca in neuroscienza, tra Poli e Università di Zurigo, con il professor Lukas Sommer. Studiavamo lo sviluppo embrionale, perché il melanoma copia diversi meccanismi durante la sua formazione e progressione. La comparazione tra normale sviluppo embrionale e cancro ci permette di determinare i meccanismi molecolari alla base dell’inizio, della crescita e della formazione di metastasi del melanoma e fornire in futuro intuizioni sulla biologia di questo tumore. Una ricerca di base che potrebbe in futuro fornire intuizioni rilevanti per nuovi trattamenti». Finito il dottorato è volata a New York per continuare le sue ricerche. Il tumore della pelle è il suo focus, la sua motivazione è forte. «Voglio investire tempo ed energie nella ricerca sui tumori perché è un male che entra in quasi tutte le famiglie e porta tanta sofferenza. Nel mio piccolo voglio contribuire a fare qualche passo avanti».
Cerchiamo infine di capire che cosa farà allo Ior. «Stiamo selezionando il team, all’inizio saremo in quattro. Studieremo il melanoma, i meccanismi che ne influenzano l’inizio e la progressione che permettono lo sviluppo di metastasi in organi come il cervello. Con ricerca di base ci sono tante incognite, ma è essenziale. Il mio sogno è contribuire un giorno a potenziali nuove terapie», conclude.