Uno sguardo all’opinione pubblica del Paese e all’efficacia della propaganda putiniana con l’esperto Alexis Berelowitch
Cosa pensano i russi di Putin, della guerra in Ucraina, del loro Paese, dell’Europa e dell’Occidente? E cosa ci dicono questi pensieri della strategia propagandistica tessuta dal Cremlino? «Sono domande che ci poniamo in molti, ma alle quali si possono dare solo risposte parziali, basate su ipotesi e su strumenti come i sondaggi, con tutti i loro limiti». Mette subito le mani avanti Alexis Berelowitch, cofondatore e direttore del Centro di studi franco-russi a Mosca, autore di numerosi studi sulla società russa prima e dopo la caduta dell’Unione sovietica e traduttore, tra le altre cose, dell’immenso ‘Vita e destino’ di Vasilij Grossman per i lettori francofoni: «Dopotutto parliamo di un Paese autoritario, uno Stato di polizia che reprime le manifestazioni di dissenso fino a sfiorare il ridicolo, come nel caso di chi viene arrestato perché manifesta da solo in piazza con in mano un cartello o una copia di ‘Guerra e pace’. In più sappiamo che non tutti rispondono ai sondaggi oppure non lo fanno sinceramente, e che le domande stesse possono essere fuorvianti in molti modi, a partire dall’obbligo di usare l’espressione ‘operazione militare speciale’ invece di ‘guerra’. Se però incrociamo questi dati alle testimonianze raccolte da molti giornalisti e studiosi, a quanto possiamo ravvisare sulle reti sociali e all’esperienza storica, possiamo almeno formulare qualche considerazione generale».
I sondaggi riportano di un tasso d’approvazione per Putin e il suo operato che supera l’80% ed è cresciuto ulteriormente dopo l’invasione russa: un successo su tutta la linea, insomma.
O no?
Sicuramente l’onnipresente propaganda ufficiale si è dimostrata efficace. Il consenso è esteso e forte soprattutto nelle città più piccole e nelle zone rurali, mentre restano meno entusiaste le grandi città come San Pietroburgo e Mosca. Si nota d’altronde un minore consenso tra i giovani, dovuto forse, più che all’età, al fatto di informarsi su internet e sui social – accedendo anche a fonti indipendenti – più che tramite la televisione e i media tradizionali controllati dallo Stato. Va detto che in ogni caso si tratta di un consenso passivo.
In che senso?
Abbiamo visto ben poche azioni spontanee a favore del Cremlino: le famose ‘flash mob’, quelle in cui alcuni cittadini si riuniscono e formano ad esempio la ‘Z’ divenuta simbolo della vittoria russa, sono pilotate dal regime. D’altro canto sappiamo che rispondere come ritiene giusto il potere, più che come la si pensa veramente, è un’antica abitudine nei regimi autoritari. Più in generale in Russia è diffusa la tendenza – radicata nella storia – ad approvare quel che fa il potere solo perché lo fa il potere, senza per questo essere specificamente convinti dalle sue motivazioni, ad esempio la ‘denazificazione’ dell’Ucraina.
Questione di prudenza: se in Unione sovietica non era molto sicuro scendere in piazza a gridare ‘abbasso Lenin’, qualcosa di simile vale oggi con Putin.
In effetti, per capire come si comporta la maggioranza dei russi è importante comprendere come ciascun cittadino si adegui contemporaneamente a diversi registri, addirittura a diverse vite, con una dicotomia significativa tra discorso pubblico e sfera privata, e perfino tra un discorso e l’altro. Valeva già durante l’Unione sovietica, quando le parate del primo maggio e gli slogan potevano sì riempire le piazze, ma non le coscienze (questo non significa che la retorica governativa fosse rifiutata, tutt’altro, però rimaneva nella sfera ufficiale). Lo rivediamo oggi. Inoltre, è stupefacente notare come quasi il 40% degli interpellati nei sondaggi dica di interessarsi poco o per nulla al conflitto, una percentuale che sfiora il 50% tra i più giovani. Che si tratti di indifferenza vera o simulata per evitare fastidi, vediamo il segnale di uno scarso attaccamento attivo all’invasione.
Le proteste hanno qualche importanza?
Abbiamo visto manifestazioni e lettere aperte di critica a Putin, sporadiche e tali da coinvolgere al massimo qualche migliaio di personalità, ma comunque significative se si considera la repressione vigente. Inoltre assistiamo all’emigrazione di numerosi russi – in particolare artisti e docenti universitari – che non vedendo la possibilità di opporsi alla guerra in patria e non volendo esserne complici decidono di fuggire all’estero.
Insomma: l’approvazione è forse maggioritaria, ma svogliata. Dunque, fragile. Le sanzioni potrebbero tramutarla in un più diffuso malcontento, tale da rovesciare il tavolo del Cremlino?
Nel breve periodo non credo sia molto probabile. Anzi, le sanzioni tornano utili a Putin per suffragare la sua visione di un occidente che ‘se la prende’ con la Russia. Nel lungo periodo le cose potrebbero però cambiare, a partire da coloro che più soffrono dell’isolamento russo: i ceti alti e medio-alti. Ci vorrà più tempo perché lo stesso disagio emerga invece tra le fasce di popolazione più anziane e rurali, dove a lasciare il segno sarà semmai un eventuale crollo del tenore di vita.
Ci sono comunque elementi del discorso putiniano che paiono trovare una vasta eco nella società russa.
Putin è sempre stato bravo a tastare il polso dell’uomo comune, rispondendo alle sue paure e alle sue aspettative con un linguaggio popolare, a tratti perfino volgare, come quando promise di dar la caccia ai terroristi ceceni "anche nel cesso". La posa è quella dell’uomo forte – Putin che si tuffa in mare, cavalca a torso nudo, pilota un aereo –, ma anche dell’uomo del popolo.
Un tasto che il presidente russo suona molto spesso è quello della rivincita, della resurrezione imperiale dopo il collasso dell’Unione sovietica, al quale seguirono anni difficili e umilianti.
Molte persone in Russia provano, più ancora che un bisogno di rivincita, un diffuso risentimento per un’Europa e un occidente che dopo un periodo di apertura paiono aver sbattuto loro le porte in faccia. Putin ne approfitta giocando sui temi dell’ostilità occidentale e dell’accerchiamento da parte dell’Europa e della Nato, riattizzando anche la percezione d’assedio di derivazione sovietica e finendo forse per credere alla sua stessa propaganda. Si propone così come colui che risolleva un Paese in ginocchio, una nazione che negli anni Novanta si è trovata umiliata da un occidente che dettava legge alla debole leadership locale. Anche la guerra in Ucraina va letta nella prospettiva di un’affermazione nazionale che risponde a questa dialettica.
In che misura tutta questa propaganda sfrutta il feticcio della ‘gloriosa’ Unione Sovietica?
La nostralgia per l’Urss costituisce uno dei maggiori assi della propaganda putiniana. Putin stesso ha detto che "chi non rimpiange la disgregazione dell’Urss, non ha cuore". Non è però su quel modello che si appiattisce la sua visione del ruolo russo nel mondo, tanto che subito dopo ha aggiunto: "Chi vuole ricrearla così com’era, non ha cervello".
Fatto sta che, sempre secondo i sondaggi, un russo su due si vergogna della caduta dell’Unione sovietica: un dato che può stupire noi occidentali. Quale surrogato di quell’esperienza promette Putin?
Nel caso di Putin le ambizioni di grandeur e rinascita accantonano il comunismo e trascendono verso le memorie imperiali, verso la visione di una grande Russia che dovrebbe comprendere anche l’Ucraina e la Bielorussia, con attorno una cintura di protezione costituita da tutte le Repubbliche ex sovietiche. Al centro c’è una Russia concepita come Paese eccezionale, che si contrappone alla decadenza occidentale: una corrente di pensiero che vediamo già affermarsi nel 19esimo secolo, in contrasto con quella più europeista. Lì ha radici l’idea di un’Eurasia distinta dall’Europa. In questa visione prende il sopravvento anche il ruolo dell’ortodossia come ultimo baluardo dei valori cristiani. Sicché da una parte si risemantizza la propaganda sovietica sull’essere avanguardia dell’umanità, dall’altra se ne trasla il baricentro su valori intrinsecamente conservatori. Un esempio piccolo, ma rivelatore: viene sì ripreso l’inno sovietico, ma con Dio al posto di Lenin.
Invece la propaganda sovietica era radicalmente anticonservatrice: donne lavoratrici immortalate coi pantaloni, superamento delle vecchie ‘superstizioni’, esaltazione della scienza e della tecnica. L’odierna Russia – reazionaria, omofoba, fanaticamente ortodossa – non segna una regressione?
Mi pare in realtà che la modernizzazione sovietica sia sempre rimasta ferma alla superficie della società russa, con una propaganda che dagli anni ’60-’70 in poi ha smesso di risultare convincente nell’intimo dei cittadini. Le donne lavoravano, sì, ma anche lì era tipico vedere decine di donne scavare e vangare, guidate da un caposquadra uomo. Il discorso di Putin – che si propone come difensore dei valori cristiani e trova sostegno in un patriarca come Cirillo, che addirittura giustifica l’invasione dell’Ucraina alla luce della lotta anti-gay – parla a molti russi, più della retorica dell’Urss. Anche perché risponde a una paura dei cambiamenti che in realtà era già presente sul finire dell’epoca sovietica – specie negli anni Ottanta – e che è stata acutizzata dallo shock degli anni Novanta. Vi si affianca un ampio milieu intellettuale che vede nell’epoca imperiale il momento di vera autenticità e prosperità della Russia, ancora una volta associato a quell’eccezionalismo slavo poi corrotto dall’Occidente, al quale alcuni imputano come colpa anche l’esportazione a Mosca delle idee marxiste.
Che opinione hanno i russi degli ucraini?
In generale, molti russi percepiscono gli ucraini come fratelli minori, magari un po’ rustici, con una lingua che è una storpiatura del russo e un solo grande scrittore, Taras Shevchenko. Si tratta ovviamente più di pregiudizi che di opinioni ragionate, ma è su quello che fa leva Putin quando parla di un’Ucraina separata artificialmente dalla Russia da Lenin, e giustifica la sua prova di forza contro i ‘traditori’ nazisti. Il tradimento viene poi spesso percepito dalla gente, sempre in modo irriflesso, come perpetrato non solo dal governo di Kiev, ma dagli ucraini in quanto tali. Questa percezione, naturalmente, si rivela strumentale e strategica per legittimare l’invasione.