Commento

L’invasione, le macerie e il balletto dei però

Quello di sminuire la gravità di un’aggressione screditando l’aggredito è un vecchio trucchetto di propaganda. C’è chi abbocca e chi ci lucra

(Keystone)
26 marzo 2022
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Il trucco da azzeccagarbugli è tutt’altro che nuovo. Di fronte a una palese ingiustizia che sollecita condanna e ribrezzo, chi ne difende l’autore non può negarne le responsabilità tout court come vorrebbe: è già smentito dai fatti, visibili come le bombe e le macerie in Ucraina. Ecco allora che inizia il balletto dei però. Anzitutto si minimizza il crimine screditando la condotta delle vittime, ad esempio per aver flirtato con l’Occidente, come quando d’una donna violentata si dice che "però se l’è cercata". Poi si cerca di relativizzare il torto citando un altro torto che non c’entra assolutamente nulla: "Però pure gli Usa in Iraq…". Infine si mostrifica la parte lesa isolandone le mele marce – "però il battaglione Azov…" –, perché come insegna un proverbio russo "una goccia di catrame rovina una botte di miele".

Se necessario poi si corrompe anche il lessico utilizzato, visto che dire e pensare sono strettamente correlati: la guerra e l’invasione diventano – cito dall’ultimo appello dei putinisti ticinesi – "tensioni" e "ostilità", quasi stessimo assistendo a una partitella un po’ animata su un campetto di provincia. Perfino quelli che ad ogni occasione urlavano "ora e sempre resistenza" passano a labirintici distinguo degni del più petulante adagio andreottiano: "La situazione è un po’ più complessa…".

Al gioco partecipano in tanti, tra chi muove i pedoni e chi pedone finisce per essere: sovranisti di destra che a Putin hanno sempre guardato con malcelata ammirazione, populisti aperti a ogni teoria del complotto come i grillini italiani, stagnolari orfani di pass e vaccini coi quali prendersela, la vecchia sinistra che pur di superare il ‘feroce’ capitalismo occidentale lo svenderebbe alla prima autocrazia che passa. Molti abboccano in buonafede, magari perché certe rappresentazioni titillano i loro inveterati pregiudizi: come quel venerato maestro della sinistra locale che sui social mette le coreografie ‘pacifiste’ (leggi: antiamericane) degli ultrà della Stella Rossa Belgrado, ovvero i fascisti eredi delle tigri di Arkan e della pulizia etnica nei Balcani. Ma tanti sono anche i troll e gli arruffapopolo che lo fanno apposta e ci lucrano pure, come spieghiamo qui.

Contrastare questo tipo di distorsione della realtà non vuol dire "fare il tifo", essere giornalisti "euroatlantici" o "con l’elmetto", come si sente dire spesso. Significa semmai cercare di applicare una vecchia regola per cui "se uno ti dice che piove e un altro che c’è il sole non devi riportare l’opinione di entrambi, devi guardare dalla finestra e dirmi che tempo fa". Non lo scrivo per il malsano gusto di aver ragione, e tantomeno per negare la legittimità del dibattito su mille altre cose – aiuti, sanzioni, armi, accoglienza –, ma perché nessuno di questi temi è seriamente affrontabile se prima non si combatte la mistificazione con qualcosa di diverso da un’imparzialità di latta, che riluce di opportunismo e indifferenza. Altrimenti si finisce come su quei giornali e in quei talk show in cui, col pretesto del pluralismo, lasciano blaterare chiunque: la propagandista del Donbass, il politico che mente sapendo di mentire, o ancora lo storico dell’arte che ti spiega Kissinger e l’antropologo che disquisisce di missili ipersonici (ormai l’esperto d’una materia si può rivendere come esperto di tutto, anche se è come chiamare l’elettricista per un rubinetto che perde). Organetti perfetti per i ballerini dei però.

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