Disinformazione e guerra cyber sono parte integrante della strategia russa, in Ucraina e non solo. Un nuovo libro spiega bene la situazione
Da anni "la guerra in Ucraina ha visto impiegato un poderoso apparato per dare vita a una vera e propria realtà parallela e a una ‘versione russa dei fatti’". Partiamo da qui – da una frase del recentissimo ‘Brigate Russe. La guerra occulta del Cremlino tra troll e hacker’ – per capire meglio come l’approccio di Mosca alla guerra si sia fatto sempre più complesso e "non lineare", e come finisca per coinvolgere strumenti di disinformazione estremamente vicini alle nostre vite. Cosa c’entrano coi missili quegli strani profili social che alternano le foto di gattini agli insulti anti-ucraini, la ricetta del brasato alle fake news sulla guerra? Che ruolo giocano certe testate ‘giornalistiche’ apparentemente legittime che forniscono loro continuo foraggio? Ma anche: cosa c’entra un computer in Toscana con una megapanne dall’altra parte del mondo? Ne parliamo con la giornalista Marta Federica Ottaviani, autrice del saggio, esperta di Russia per il quotidiano ‘Avvenire’ e collaboratrice di numerosi think tank tra i quali l’Aspen Institute.
In questi giorni, sui social assistiamo a una chiara intensificazione dei messaggi pro-Putin e della condivisione di bufale sull’Ucraina. In parte, il fenomeno si può ritenere ovvio e in buonafede. Ma dietro ci sono anche i troll, i ‘cattivi folletti’ pagati dalla Russia per aumentare la disinformazione. Come si riconoscono?
Il problema è proprio che è difficilissimo riconoscerli. Spesso creano centinaia di profili social insospettabili, dietro ai quali paiono esserci le vite reali di persone che hanno amici, passioni, animali domestici. Sono persone che nelle loro interazioni – ad esempio commentando una notizia sulla guerra e pubblicando bufale sul tema – possono adottare i registri più diversi, dal volgare insulto all’analisi apparentemente più articolata e pacata. Ma numerose inchieste e fughe di dati hanno permesso di ricondurre migliaia di profili alle attività di disinformazione del Cremlino, coordinate in particolare dalla Internet Research Agency con sede centrale a San Pietroburgo.
Di cosa si tratta?
È un’organizzazione che a quanto si sa impiega circa seicento persone. È organizzata in vere e proprie redazioni che mirano a raggiungere gli interessi e le attenzioni delle persone più svariate, dall’appassionato di sport a quello di spettacoli, cucina, politica internazionale. A scrivere sotto migliaia di falsi nomi – con retribuzioni che variano dai pochi rubli a cifre ben più consistenti – sono casalinghe, studenti, ma anche persone con profili professionali più strutturati, disseminate ai quattro angoli del mondo. Il sistema sfrutta anche algoritmi, bot (software capaci di generare messaggi in automatico sui social, ndr), il ‘deep fake’ che consente di creare immagini e video apparentemente realistici, ma completamente contraffatti. Agli albori di questa strategia, prima del 2013, li si poteva a volte riconoscere dall’uso zoppicante dell’italiano e di altre lingue straniere, ora è sempre più arduo. A questo sistema si affiancano firme di influencer e blogger che al contrario devono alla loro notorietà il peso – anche in termini retributivi – riconosciuto loro da persone vicine al Cremlino. Lo scopo è sempre lo stesso: seminare dubbi nelle persone, puntando anche sull’emotività e la fretta che dominano i social, e generare un ‘effetto valanga’ in cui i propri contenuti vengono ripresi e ricommentati da milioni di leoni da tastiera, spesso inconsapevoli vittime dei loro stessi pregiudizi di conferma.
A fornire il materiale è una serie di testate e agenzie di propaganda, alcune delle quali bandite ora in Europa (ma non in Svizzera). Quali sono?
I casi più noti sono quelli di Sputnik e Russia Today, ma le testate sono molteplici e spesso molto più sottili nella loro rappresentazione della realtà: siti di persuasione quasi occulta come Russia Beyond, agenzie create ad hoc qualche anno fa per il conflitto in Ucraina come Kharkov News Agency, sedicenti think tank come Strategic Culture Foundation. Occorre comunque notare che l’impegno della macchina di propaganda non è solo mettere in buona luce il regime di Vladimir Putin all’estero, ma anche all’interno della stessa Russia.
In questo senso, il controllo di internet ha visto in Putin un pioniere: con quali risultati?
Il limite del controllo di Putin sul web in Russia dipende dalla necessità di tenere la popolazione connessa con le reti internazionali per motivi lavorativi, finanziari o per la semplice insostituibilità di certi servizi esteri. Si sta però tentando di replicare social network e altri strumenti, creandone ‘cloni’ russi come VKontakte e Telegram. Questo ovviamente consente di possedere sempre più dati personali su una popolazione già abbondantemente ‘schedata’ online dalle autorità. A sua volta, tale controllo renderà più efficaci anche le campagne pro-Putin e di diffamazione degli oppositori.
Fin da prima dell’Euromaidan, l’Ucraina è stata un laboratorio enorme per le nuove tecniche di disinformazione.
Va detto che i metodi di destabilizzazione ‘ibrida’ erano già stati sperimentati in Estonia e in Georgia nei primi anni Duemila. Le linee guida costituiscono la cosiddetta ‘dottrina Gerasimov’, dal nome del generale che ha contribuito almeno in parte a sviluppare il nuovo concetto strategico (e che ora si direbbe caduto in disgrazia, ndr): l’idea è quella di combinare strumenti non militari – dalla disinformazione all’infiltrazione, fino all’impiego di milizie clandestine – per ristabilire senza una guerra aperta la forza internazionale di una Russia che si crede umiliata e accerchiata. In questo approccio strategico la destabilizzazione è continua, non conosce la distinzione convenzionale tra guerra e pace e le armi convenzionali si usano solo come extrema ratio.
Come in questo momento?
Il grande rischio per Putin è proprio quello di essere ricorso alla guerra convenzionale. Intanto perché è molto più visibile e inequivocabile della cosiddetta ‘guerra non lineare’, per cui diventa difficile nasconderla tramite la disinformazione come invece si è fatto con molte operazioni di questi anni. E poi perché non è detto che la Russia abbia i mezzi per sostenere a lungo questo ritorno alla dimensione ‘novecentesca’ del conflitto.
Anche senza guerre, il ricorso congiunto a troll e hacker è servito a generare caos nel cuore stesso dell’Occidente: lo abbiamo visto con il Russiagate e l’elezione di Donald Trump, con la Brexit, con i gilet gialli, ma anche con le proteste No Vax e No Pass.
Anche in diversi casi occidentali compare il ruolo della Russia, sebbene il sistema decentrato di intervento spesso richieda anni per essere smascherato. Se da una parte si sono fomentate le proteste di piazza, dall’altra si è cercato di mettere in ginocchio con attacchi hacker le infrastrutture di interi Paesi: lo si è visto negli Usa nel 2021, quando gli hacker legati alla Russia sono riusciti a bloccare un oleodotto lungo novemila chilometri e sono perfino riusciti a paralizzare le attività di interi ospedali, peraltro in pieno Covid. Tutte attività sapientemente coordinate in modo delocalizzato, in modo da dissimulare il più possibile tracce e legami: pensi al povero meccanico toscano che si è ritrovato la polizia alla porta perché il suo computer era stato preso in ‘ostaggio’ durante un attacco agli Usa.
Anche questi attacchi erano già stati sperimentati a Est, come in Estonia e Ucraina. Come nel caso dei troll, gli hacker sono motivati da un ritorno economico?
Sì: in questo caso, oltre a eventuali finanziamenti diretti spesso effettuati in criptovalute, c’è la possibilità di ottenere enormi riscatti dalle aziende colpite per ‘sbloccarne’ i sistemi: parliamo di decine di milioni di dollari.
Andrà pur detto che le bufale e i ‘pirati’ esistono anche negli altri Paesi. O no?
Certo, e infatti le fake news circolano anche da parte dell’Ucraina e spesso l’azione del Cremlino è smascherata da hacker di altri Paesi. Qui però l’Ucraina è parte lesa, e infinitamente più debole nel disseminare disinformazione. Quanto agli altri Paesi: è chiaro che ci sono elementi di cyberwarfare e propaganda anche nella loro strategia, ma finora non ne abbiamo visto un uso così sistematico e strutturato nell’atto stesso del fare la guerra.
Torniamo al problema della disinformazione. L’Italia – e dunque anche parte dell’opinione pubblica ticinese, che spesso ne segue i media – appare particolarmente vulnerabile alle bufale filoputiniane. Perché?
Una parte importante dell’informazione italiana è effettivamente nelle mani della ‘controinformazione’ russa. Aiuta sicuramente lo smaccato filoputinismo che per anni ha dominato formazioni così diverse come la Lega, il Movimento 5 Stelle e l’estrema sinistra. Cosa che d’altronde non stupisce, visto che l’intervento russo è ‘laico’, non guarda alle differenze tra destra e sinistra, ma al ruolo di destabilizzazione che può giocare in questa o quella formazione.
Così, come un tempo vedevamo Salvini con la maglietta di Putin, ora vediamo una certa sinistra ‘pacifista’ in piazza ‘né con Putin, né con la Nato’. Però anche in Russia hanno manifestato per la pace, e tutti li abbiamo applauditi.
Sì, ma l’hanno fatto sfidando la repressione e gridando "Ucraina, Ucraina" accanto a "Putin ladro", non sostenendo certe equivalenze del tutto infondate. E su questo è meglio essere chiari: chi non accetta di distinguere l’invasore dall’invaso, chi si nasconde dietro ai ‘però’ legittima l’attacco contro l’Ucraina, l’Europa e i nostri valori di democrazia e libertà.
C’è però chi solleva certi distinguo in tutta sincerità, magari perché ostile alle politiche Usa.
Sarà, ma io penso che molti, di destra come di sinistra, siano mossi da una vera e propria infatuazione per il putinismo. Ora: se da una parte le simpatie populiste dei grillini e della Lega sono evidenti, dall’altra la sinistra dovrebbe smetterla di vivere come se il muro di Berlino non fosse mai caduto, coltivando nostalgie sovietiche.
Qual è invece il ruolo dei giornalisti?
Purtroppo – e proprio il caso italiano ne è l’esempio – molti giornalisti si stanno comportando in maniera inadeguata. Mancano le verifiche, manca la competenza sui temi di politica estera, e in alcuni casi si vede una vera e propria complicità con la propaganda di Putin. A questo si aggiunge la volontà – mista all’incompetenza – di guardare ai dati dell’audience più che alla qualità dell’informazione. Così sui nostri talk show e giornali ci tocca vedere furiose baruffe tra finti esperti di tutto e di nulla, che parlano di cose che non conoscono, vuoi per ignoranza vuoi per interesse. Nel frattempo i giornalisti più scrupolosi sono messi da parte, devono vedersela con meccanismi di manipolazione sempre più subdoli e con la confusione creata dai loro colleghi più spregiudicati o incompetenti.
(Ledizioni)