Estero

‘Alla guerra non ci sono giustificazioni’: la voce di 3 ucraine

Ci sono cose da non fare mai,/ né di giorno né di notte,/ né per mare né per terra,/ per esempio: la guerra

(Keystone)
28 febbraio 2022
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Andando oltre le notizie e i resoconti di guerra; andando al di là delle scelte politiche (con cui si può concordare o dissentire), della ricerca di giustificazioni (semmai sia possibile darne), ci sono le voci di coloro che a più di mille chilometri di distanza vivono con apprensione le sorti dei propri cari e dell’Ucraina dopo l’invasione russa di giovedì 24 febbraio. Tre donne che vivono nella Svizzera italiana hanno consegnato alle nostre colonne tre racconti accorati, che muovono da paura, incertezza, ma anche appoggio. Li abbiamo raccolti e qui li riportiamo.

‘Il mio popolo ucraino voleva solo vivere libero’

«Non riesco a pensare, respirare, vivere. Devo bere la valeriana. Vivo male e ho i brividi di rabbia, perché i miei parenti sono là. Giovedì (24 febbraio, ndr) si sono svegliati alle cinque del mattino con le bombe, vivono ore di angoscia». Tania è di Lubny, una piccola città fra Kiev e Charkiv, è nata agli inizi degli anni Settanta («c’era ancora l’Unione Sovietica») ed è l’ultima di tre figli, sua madre è di Odessa e suo padre era della regione di Lugansk. Poco più che ventenne si stabilisce nel Locarnese, siamo a metà dei Novanta. Ora, «cerco di sopravvivere a un turbinio di emozioni per non crollare. Ce la farò. Devo».

Nella cittadina natale, Tania ha ancora sua sorella che vive con la loro mamma anziana, «abitano al terzo piano di un palazzo, mia mamma ha le gambe malate e cammina male; fa fatica a fare le scale… se dovessero scappare in cantina, ho paura che non ce la faranno. Intanto aspettano, cercano di mangiare, respirare, vivere e ascoltano le notizie». Parla con voce tremante, pare di vedere le lacrime, ma al telefono percepiamo "solo" singhiozzi sommessi. «Da Odessa, mio fratello è riuscito a portare la sua famiglia al confine con la Moldavia. Ma gli uomini non possono uscire dall’Ucraina. È quindi tornato indietro, anche perché deve prendersi cura dei genitori anziani della moglie», racconta con un filo di voce. «Le persone restano a casa o si nascondono in metropolitana; mia nipote ci ha passato ore in quella della sua città».

A pesare in questo contesto, oltre alla drammaticità di una guerra, è l’incertezza: «Le persone vivono nella paura, con l’angoscia di non sapere che cosa le aspetta, se riusciranno a sopravvivere. Questo stanno facendo ora: cercano di sopravvivere». E conclude: «L’esercito ucraino sta combattendo fino alla morte, difende il suo Paese e la sua indipendenza. La storia purtroppo si ripete: Putin è un altro Hitler, ha demonizzato il popolo ucraino, con bugie e menzogne, ha preparato questa guerra negli ultimi otto anni. Sta uccidendo l’Ucraina, la mia gente ucraina, che è pacifica, talentuosa e buona. Un popolo che voleva solo vivere in libertà… Non ci sono giustificazioni alla guerra».

La versione filorussa

Elena, 45 anni, nata a Sebastopoli, residente da tempo in Ticino, non parla di aggressione russa all’Ucraina, ma di «liberazione del popolo ucraino da estremisti e nazionalisti pagati dall’estero, primo fra tutti il presidente Zelensky, che, va ricordato, era un comico televisivo». La guerra, aggiunge, «non è cominciata l’altro giorno, ma nel 2014, anche se qui in Svizzera non se n’è avuta notizia. E non è mai stata una guerra tra russi e ucraini, ma voluta da attori esterni che hanno riempito l’Ucraina di armi nell’interesse della Nato. Quel che osserviamo in Ucraina dalla disgregazione dell’Urss è una decostruzione culturale e storica ai danni della Russia. Che ora ha deciso di liberare la popolazione del sud dagli estremisti che la governano». La Crimea, dove da molti anni vivono i genitori di Elena, e dove ella stessa ritorna più volte all’anno, secondo lei «è oggi una Repubblica dove regnano pace e prosperità e dove le infrastrutture sono moderne. Ucraini e russi sono fratelli, nessuno vuole la guerra». Quanto a chi protesta nelle piazze russe per l’azione condotta dal presidente, «è gente pagata e poco informata».

‘Non so se sono vivi. Non so cosa succede’

Quattro anni fa Lidia è arrivata nel Bellinzonese da Ternopil, nell’Ucraina occidentale. La sua voce trema e, in principio di telefonata, è un po’ restia a raccontare come sta vivendo il conflitto in atto nel suo Paese. «Male. Non saprei che altro dire», risponde sulle prime.

«In Ucraina c’è la mia mamma e c’è tutta la mia famiglia. Continuo a chiamarli per sapere di loro, li sento due o tre volte al giorno, tranne quando devono rifugiarsi e spegnere le luci per i bombardamenti. La cosa peggiore è che di notte non posso sentirli e alla mattina è sempre un dramma. Non so se sono ancora vivi, cosa succede. C’è incertezza per il domani. Ora bombardano Kiev. Tutti sono preoccupati, si nascondono dove possono. È una situazione molto brutta. Guardando le notizie non si capisce se l’Europa aiuterà, forse ha paura della terza guerra mondiale. Per l’amor di Dio, l’Occidente ha aiutato tanto, anche con le sanzioni, e ringrazio i vari Paesi che ci sostengono. Però le sanzioni, secondo me, sono un po’ poco, dovrebbe esserci un approccio più deciso. Noi comunque vogliamo la pace, non la guerra».