Chi non sente e comunica in lingua dei segni ha affrontato nuove difficoltà, non solo a causa delle mascherine. Ma non è stato tutto da buttare
Una mano chiusa a pugno poggiata sotto il palmo dell’altra, che a dita aperte mima una corona. È la rappresentazione del coronavirus nella lingua dei segni, come ci fa vedere Laura Sciuchetti, assistente di direzione presso la Federazione svizzera dei sordi (Fss). Quando abbiamo deciso di contattarla, il primo pensiero è stato "chissà come avranno fatto a cavarsela con le mascherine". E anche se poi abbiamo imparato molte altre cose, partiamo da lì: «All’inizio è stato davvero difficile», spiega esprimendosi sempre in lingua dei segni. «Chiedevamo alle persone di abbassarla per poter leggere le labbra, ma tanti si rifiutavano, avevano paura. Un problema col quale ci scontravamo per strada, nei negozi, al lavoro: era come parlare col muro». Lei però non perde mai il sorriso, e aggiunge subito: «Le cose col tempo sono migliorate. Le persone hanno capito che poter leggere il labiale è un nostro diritto. Noi sordi poi sapevamo già da prima della pandemia che per comunicare dobbiamo essere sempre flessibili, provare tutte le forme di confronto, e così abbiamo fatto. Qualche problema rimane, ma in linea di massima direi che ci siamo riusciti».
La strada da fare era – e resta – tanta: spiazzati dalle difficoltà di comunicazione, troppo spesso noi udenti ‘vediamo’ la sordità prima della personalità, incappando in atteggiamenti che possono spaziare dal paternalismo all’impazienza. Il risultato è un certo grado di isolamento per le persone sorde, ovviamente raddoppiato quando isolati ci siamo finiti un po’ tutti, per via dei lockdown e delle altre restrizioni. «In effetti è stato un doppio shock», commenta Sciuchetti, «specie per chi alla sordità unisce altri tipi di vulnerabilità e magari, essendo anziano, fatica a usare strumenti informatici ai quali noi giovani siamo più abituati». Strumenti che però hanno i loro limiti, «ad esempio la difficoltà a ‘leggere’ quello che dicono le persone dalle finestrelle dei programmi di videoconferenza. Alla fine la soluzione migliore anche per noi resta sempre l’incontro fisico, qualcosa di molto importante anche all’interno della comunità sorda, sebbene ci siamo subito riorganizzati per aiutarci e venirci incontro anche da remoto».
Sciuchetti è sorda, come suo marito e i genitori di entrambi, ma i suoi due bimbi non lo sono: quello della genetica come fattore determinante di certe sordità è un po’ uno stereotipo, anche perché «in Svizzera ci sono 10mila persone affette da sordità profonda, e ovviamente non siamo tutti uguali». Generalizzazioni e cliché, d’altronde, sono piuttosto diffusi dopo secoli di discriminazioni o semplici malintesi: durante l’intervista ci sfugge un paio di volte il termine ‘sordomuti’, che però «è scorretto, si usava in Italia ai tempi dei vecchi istituti, ma anche chi è completamente sordo può emettere suoni, semmai non riesce a replicare quelli delle parole che non ha mai sentito».
E qui arriviamo anche al punto della differenza tra lettura labiale e lingua dei segni: «Sicuramente le mascherine hanno penalizzato fortemente la nostra possibilità di comunicare. Va però ricordato che anche senza di esse, quando leggiamo le labbra possiamo comprendere al massimo il 60% di quanto ci viene detto, a seconda dell’ambiente e delle condizioni in cui ci troviamo. In ogni caso, riuscirci è molto affaticante». Per questo anche le mascherine trasparenti, di cui si parlava molto all’inizio dell’emergenza, servirebbero a poco: «Hanno preso piede solo in alcuni istituti o luoghi di lavoro, ma secondo me non risolvono granché: nascondono comunque parte delle espressioni, scivolano sulle labbra, si appannano, riflettono la luce…»
Se la lettura delle labbra è un’approssimazione di quella ‘seconda lingua’ che è l’italiano parlato e scritto, per chi è nato sordo la ‘lingua madre’ è proprio quella dei segni, i quali nella relazione coi concetti espressi sostituiscono le parole. L’esistenza di una diversa lingua dei segni per ciascuna lingua parlata nazionale dipende dal fatto che «ognuna è determinata da contesti storico-culturali diversi», ma non deve far credere che l’una sia il semplice calco o la traduzione dell’altra: si tratta di linguaggi autonomi, per cui potremmo vedere i sordi come una minoranza linguistica piuttosto che come disabili. Anche per questo la presenza di informazioni sul Covid-19 e l’interpretariato delle conferenze stampa di Cantone e Confederazione in lingua dei segni «sono state importanti e va detto che in Ticino, a differenza che a Berna, questo servizio è stato reso disponibile da subito. In realtà poi sappiamo arrangiarci comunque, ma è importante che in questa fase sempre più persone abbiano compreso la rilevanza, per la nostra salute e la nostra inclusione sociale, dell’interpretariato».
Per questo ausilio si riceve un sostegno finanziario mensile di circa 1’750 franchi a persona, unico contributo riconosciuto dall’Assicurazione invalidità per i sordi in assenza di particolari disabilità o patologie. Che si tratti di uno strumento fondamentale lo ribadisce anche Sonia Serdonio, l’interprete che ha reso possibile quest’intervista in videoconferenza. Quando le chiediamo com’è cambiato il suo lavoro in questo periodo – mentre Sciuchetti sorride e fa ironicamente il gesto della pistola alla tempia, a far indovinare il superlavoro della categoria –, Serdonio nota che «in effetti ultimamente anche l’utilità del nostro ruolo è stata compresa in modo sempre più ampio. È anche aumentato l’interesse per la cultura sorda, come dimostrano le molte iscrizioni ai corsi di lingua dei segni. Un’indicazione incoraggiante per il futuro del dialogo e dei diritti delle persone sorde».
Dopo avere compiuto i suoi studi presso scuole integrate e avere avviato la sua carriera professionale in ambito amministrativo, anche Sciuchetti sta seguendo due corsi di formazione, uno di leadership aziendale, l’altro di traduzione dall’italiano scritto alla lingua dei segni: «Nel primo caso gli altri partecipanti sono udenti, nel secondo invece siamo tutti sordi». Ma com’è cambiata la sua vita dal febbraio del 2020, quando il coronavirus arrivò in Ticino? «Penso di essere cambiata io stessa, di essermi paradossalmente aperta a nuove esperienze. Sarà stato anche il fatto di avere più tempo a disposizione, oltre che per stare insieme ai miei figli, per incuriosirmi a nuovi argomenti, magari anche solo a partire dallo spunto di una serie Netflix o di qualche lettura». Non si può dire che le siano mancati cinema o teatri, «dato che siamo da sempre esclusi da molti eventi ed espressioni del mondo culturale, a causa dell’assenza di traduzioni in lingua dei segni e sottotitoli». Sciuchetti però lo dice senza incupirsi, consapevole del fatto che i problemi non si risolvono con le recriminazioni: «Io spero che questi anni di apertura reciproca, com’è capitato per altre forme di collaborazione durante la pandemia, abbiano aiutato le persone a comprendere meglio anche le nostre esigenze, a superare certe rigidità e certe incomprensioni». Anche questo è parlarsi.
Il 25 febbraio del 2020 arrivava la notizia del primo contagio in Svizzera, proprio in Ticino. Questa è una serie dedicata a categorie di persone spesso lontane dai media e al loro destino dopo due anni di pandemia. Le altre puntate sono qui