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La moschea dove nacque il mito del Mullah Omar

Reportage da Kandahar, dove gli anziani raccontano vita, imprese e miracoli del più noto e sfuggente capo dei talebani

La moschea del ‘miracolo’ del Mullah Omar (Fotoservizio F. Rossi)
4 gennaio 2022
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Kandahar (Afghanistan) – “Come dimenticarsi di quei momenti. Il Mullah Sahab venne qui un venerdì di 25 anni fa. Era il 1996. Un momento molto duro per noi. C’era siccità, non c’era da mangiare, i campi erano aridi”.

Mullah Sahab è il nome di rispetto dato al Mullah Mohammed Omar, primo storico leader talebano. “Disse che avremmo dovuto tirare fuori il mantello del profeta per mostrarlo al popolo” dice, assorto e con gli occhi rivolti verso una finestrella, Zirkullah, il muttawali, guardiano della Kharqa Sahrifa (il santuario del mantello in arabo), lo storico santuario nel cuore di Kandahar, dov’è custodito il famoso mantello che Maometto avrebbe indossato nel 621 durante l’Isra, il viaggio notturno che dalla Mecca lo avrebbe portato a Gerusalemme. Una reliquia portata qui dal Re afghano Ahmad Shah Durrani – considerato il padre dell’Afghanistan moderno (per questo conosciuto come “baba”) e sepolto proprio dirimpetto in un altro santuario – dopo che l’Emiro di Bukhara (oggi in Uzbekistan) glielo avrebbe dato in regalo nel XVIII secolo. Una reliquia importantissima per Kandahar e per l’Islam, della quale già il nonno e poi il padre di Zikrullah ne furono i guardiani.


Il testimone del miracolo della pioggia a Kandahar

Il telo sacro e la pioggia

Dopo un momento di silenzio, torna al racconto: “Lusingati e imbarazzati, rispondemmo al Mullah Sahab che, come disse Ahmad Shah Baba, solamente i Re dei Re avevano il diritto di ordinare tale azione. E lui lo era”. Agitandosi ed emozionandosi, racconta quindi di come Omar gli porse uno scritto tramite il quale ordinò di estrarre il mantello sacro promettendo di sacrificare 27 buoi. Zirkullah, turbante e peran tomban (vestito tradizionale) bianchi, in tono con la sua barba candida e in contrasto con la pelle olivastra e gli occhi verde smeraldo, scruta l’imbrunire da una stanzetta all’interno del santuario. Un luogo pieno di reliquie, tappetti, testi, decorata con letture del Corano datate di secoli e trascritte a mano su teli illuminati da lampadine violacee. Un tocco di misticismo, storia e confusione, tanto da ricordare l’ufficio dell’Azzeccagarbugli. “Il mantello è custodito in scatole di argento, con inscritti i versi del Corano ai bordi. Nessuno lo aveva mai tirato fuori da decenni. Perciò, dopo il suo ordine, lo trasportammo alla Moschea dell’Eidgha, dove ci si ritrova durante le preghiere di Eid (feste religiose). Inutile dire che si radunarono migliaia di persone per sentire la preghiera e la predica del Mullah Omar, il quale nei giorni precedenti era già stato proclamato Amir Ul-Mu’minin (leader dei credenti) da un consiglio di Ulema provenienti dalle province. Ma aveva bisogno dell’approvazione popolare”.

È qui che i ricordi affiorano, intensificandosi tanto da farlo sognare: “Aprimmo gli scrigni d’argento, c’erano dei guanti con cui trattare il mantello. Il Mullah Omar se li mise e, sotto lo sguardo sbalordito di tutti, fra cui il mio, che gli stavo accanto, estrasse il telo sacro. La gente piangeva, gridava, lanciava vestiti in un’atmosfera nervosa. È difficile far rivivere quei momenti. Prese il telo, prima lo baciò poi lo alzò al cielo, mostrandolo a tutti. Piangeva anche lui, non potendo trattenersi”. Secondo Zikrullah, in seguito alla preghiera del Mullah Omar con il mantello del profeta, chiedendo a Dio pace e fertilità, dopo 5 giorni cominciò a piovere ininterrottamente come non aveva mai visto: “Solo allora tutta la popolazione si convinse che il Mullah Omar era, per davvero, il nostro vero e indiscusso leader. Era una persona molto semplice. Dava udienza a tutti perché diceva che tutti avevano il diritto di chiedere”. Il famoso mantello sacro, che pochi videro, è secondo Zikrullah un oggetto “mistico. Non è seta, non è di un materiale terreno. È qualcosa di divino. E nessuno può indovinarne il colore, perché ognuno lo vedrà in modo diverso”.


Due scatti del Mullah Omar (AP Photos/Vanity Fair, Magnum Photos)

L’eredità del Re dei Re

Per Zikrullah è un ricordo indelebile di un uomo che ha scritto una parte della storia dell’Afghanistan e che, per diventare il Re dei Re, come voleva la tradizione, si fece eleggere leader indiscusso proprio a Kandahar, con il sommo titolo di Amir Ul-Mu’minin, il comandante dei credenti.

Kandahar si prepara al maghrib, la preghiera prima del tramonto. Il muezzin chiama i fedeli a raccolta. Zikrullah si alza e parte. Il sole cala sulla spianata del santuario, dove decine di persone si prostrano a Dio, di fronte al santuario e alla tomba di colui che non solo portò qui il mantello sacro, ma fece di Kandahar una vera capitale imperiale e diede forma all’impero Afghano, che si estendeva dal Baluchistan all’Amu Darya, fino al Kashmir. Era Ahmad Shah Durrani.

C’è un proverbio, conosciuto in tutto l’Afghanistan: “Chi controlla Kandahar, controlla il Paese”. Un detto che rimane tuttora realtà. È la città del potere, dove l’Afghanistan nasce, dove la sua identità è stata forgiata. Ed è qui che ogni Shah (Re) e presidente, a partire da Ahmad Shah Durrani, ha dovuto cercare l’approvazione, fare i conti con la sua gente, le diverse tribù e gli intrighi di potere di stampo mafioso. Nella storia pochi leader hanno avuto origini distanti dalla città. L’ex-presidente Ashraf Ghani, ad esempio, proveniente dalla provincia di Logar, ha avuto molti problemi a gestire le relazioni.


Un canale per le abluzioni

Come tramandare una leggenda

È proprio dalla capitale storica dell’Afghanistan che si è creato il mito di un leader che per molti è diventato leggenda. Omar, che poco dopo la presa di Kabul nel 1996 si recò in un luogo remoto e si nascose dando ordini a distanza durante il regime talebano prima e dopo l’inizio dell’invasione occidentale poi. Morì di tubercolosi a Zabul, nel 2013, lasciando dietro di sé solo il mito – suo e di quei suoi compagni, i talebani – che rimarrà sempre avvolto da un alone di mistero. E ancora oggi, nei meandri del paese, sono pochi i testimoni che ne ricordano i tratti e il carattere.

“Un giorno il Mullah Sahab e il Mullah Baradar mi chiamarono per risolvere un litigio. Stavano bisticciando su come iniziare la coltivazione di un campo” – ricorda Rahmaddin, 54 anni, un contadino sorridente vicino al Minbar della Moschea Haji Ibrahim – “Omar sosteneva che bisognava cominciare da nord e Baradar il contrario. Finalmente, quando io dissi che Omar aveva ragione, lui si divertì a sfottere Baradar dicendo che non capiva nulla. Ci mettemmo tutti a ridere”.

Comincia così una conversazione surreale, in un villaggio splendido, Gheshano (area di Singasar), nel distretto di Dand della provincia di Kandahar, un’ora a ovest dalla città. La moschea, che i locali chiamano con affetto Amir Ul-Mu’minin, è oggi un edificio decadente come gli altri. Nel cortile un piccolo cimitero e qualche fontanella per le abluzioni, casolari di fango dorati e baciati dal sole pomeridiano, con strade sterrate che si districano fra coltivazioni di melograni e campi di grano e hashish. La moschea, molto spartana, ha un significato profondo per l’Afghanistan: è qui che il Mullah Omar si rifugiò dopo gli anni della Jihad contro i russi e il regime comunista di Mohammed Najibullah, crollato nel 1992, riprendendo le sue letture e predicando contro gli abusi che i signori della guerra stavano perpetrando contro i civili. È da qui che, insieme ad altri mullah e contadini, incominciò l’inqilab, la “rivoluzione”, contro chi fece del suo Paese il proprio terreno di gioco, uccidendo, riscuotendo tasse, stuprando, senza nessun ritegno. Gli anziani, quasi tutti, combatterono con lui. Ma nessuno si ricorda più cosa disse esattamente. La gente, marcata in faccia dalla povertà, dalla stanchezza del duro lavoro nei campi, è confusa, poco lucida. Ma è chiaro a tutti che è qui dove tutto cominciò.


I vecchi raccontano le gesta dell’emiro (F. Rossi)

La rivoluzione compiuta

All’interno della moschea in molti si siedono per ascoltare le storie di chi ha conosciuto quei mullah, partiti con quattro armi in croce per conquistare quasi tutto il Paese in meno di quattro anni, istituendo un Emirato che sarà ricordato dai più come terrificante. Sono tutti seduti a gambe incrociate, parlando uno sopra l’altro e correggendosi a vicenda ricordi sbiaditi.

“Fui io a ospitare i due Mullah, Omar e Baradar. Mangiavano con me tutte le sere. Rimasero per mesi insieme alla mia famiglia. Erano umili, semplici, gentili. Quando tornavano la sera mi chiedevano se avessi già mangiato. Io rispondevo di no, che li aspettavo” ricorda il claudicante Haji Faiz. È molto anziano. Cammina con un bastone e mezzo ed è mezzo sordo. Bisogna urlare per porgli una domanda: “Cosa? Sì, combattei anche io con lui. Poi, quando diventò il nostro re, il nostro leader, sparì del tutto. Un giorno ritornò qui. Quando si avvicinò a me, mi salutò dicendomi: tu eri mio amico, colui che mi ospitò anni fa. Io gli risposi: “Sì certo, ma ora tu non sei più mio amico perché non ti sei più fatto vivo”. Il tono con il quale racconta fa esplodere dal ridere la gente. Laconico e pungente. Quando si annoia, smette e se ne esce in silenzio. “Il mullah Omar era molto carismatico. Tutti volevano ascoltarlo” sono invece le parole di un altro suo compagno d’armi, Mohammed Hashim. In quegli anni, in una provincia remota dell’Afghanistan meridionale la comunicazione in una moschea era ul punto di riferimento, come lo è ancora oggi.


Bambine a Kandahar

Nessuno però si mette d’accordo sul quando e il dove il Mullah Omar perse l’occhio che lo rese distinguibile dagli altri. Secondo Mawlawi Jalil, un comandante talebano di Kandahar in visita, il Mullah Omar si trovava proprio nella moschea, seduto a fianco della piccola biblioteca all’angolo, quando un razzo sovietico colpì l’edificio. Secondo Rahmaddin, invece l’incidente avvenne proprio alla porta d’entrata del cortile della moschea: “Era qui, è successo così”. Su questo episodio, si sono susseguite moltissime teorie differenti negli anni. E non solo sull’occhio. In generale nessuno potrà mai dire esattamente chi fosse Omar per davvero. Non c’erano mezzi di comunicazione, pochi scritti. Anche sulla sua vera provenienza ci sono varie testimonianze. Si conoscono con certezza alcuni pezzi della sua vita e che, dopo i russi e il governo del Dottor Najib, condusse un gruppo di pochi studenti, assoldato per la sola fede in Dio, proprio nella zona del villaggio di Singasar, dove organizzò una resistenza che pian piano diventò tanto popolare da sconfiggere i signori della guerra: “C’era un comandante molto crudele. Si chiamava Salih. Era sulla strada principale fra Kandahar e Herat. Omar ci condusse contro di lui e lo cacciammo” raccontano ancora gli anziani. “Avevamo bombe molotov, poche armi”. La storia è confermata da più fonti. Sostenuto da molti altri studenti coranici, i cosiddetti taliban, con loro cominciò le sue conquiste fino alla città di Kandahar, nel 1994 e poi Kabul, nel 1996. Ma è a Kandahar il luogo in cui si fece mito.


L’identikit del Mullah Omar diffuso dall’Fbi