Condannata per omicidio colposo la donna che nel 2018 investì a Riva San Vitale due centauri in viaggio di nozze
Su quell’auto non avrebbe mai dovuto salire per almeno due motivi: era consumatrice abituale di marijuana, tanto che anche la sera prima ne aveva fumata, ed era in possesso di una patente (bulgara) non valida sul territorio svizzero. Invece, anziché considerare il pericolo alla guida quale conseguenza di un utilizzo di sostanze stupefacenti e il divieto generale di circolazione, l’allora 26enne decise comunque di andare nella sua abitazione di vacanza a Brusino Arsizio (risiedeva in Svizzera interna). Un viaggio che finì in tragedia: poco dopo l’abitato di Riva San Vitale – erano le quattordici e un quarto del 23 marzo 2018 – investì due centauri, marito e moglie, residenti a Parigi, in viaggio di nozze fra il lago di Como e il Ceresio. Sull’asfalto rimase il corpo senza vita dell’uomo, 51enne; la donna subì delle policontusioni, ma soprattutto ne uscì sconvolta dal dolore.
L’imputata, oggi trentenne, che ha deciso di non partecipare al dibattimento e che ha quindi imposto il processo in contumacia, è stata condannata dalle Assise criminali di Mendrisio in Lugano, presiedute da Amos Pagnamenta, affiancato dai giudici a latere Renata Loss Campana e Fabrizio Filippo Monaci, a 3 anni, di cui 6 mesi da espiare. Colpevole, dunque, di omicidio colposo, anche se il presidente non ha mancato di accennare all’ipotesi di omicidio intenzionale: «L’imputata ha omesso di adeguare la velocità, di mantenere la giusta distanza e di prestare attenzione al traffico tanto da non riuscire a fermare la sua corsa, avrebbe altresì dovuto prestare maggiore prudenza e cautela proprio per la presenza del cantiere e vedendo frenare i motociclisti. Gli scatti dei selfie poi risultano dagli accertamenti degli inquirenti, come è pacifica la condizione di inattitudine per il consumo di marijuana. Una colpa, quindi, grave dal profilo oggettivo e soggettivo. L’imputata ha crassamente violato le norme della circolazione e ogni elementare dovere di diligenza a cominciare dal fatto che non avrebbe dovuto né potuto essere al volante. Ha tentato di accampare scuse, ha palesemente mentito, anche sulle cause della sua assenza al dibattimento. Si fatica a credere, infatti, a quei particolari motivi religiosi legati al Covid-19 quando, a guardare le sue fotografie, si è sottoposta a interventi ben più invasivi di un tampone nasale...».
Duro il commento della procuratrice pubblica Margherita Lanzillo che, all’inizio della sua requisitoria, non ha mancato di evidenziare la figura della vittima, «padre, compagno e figlio». Quel giorno, per l’accusa, vi erano tutte le condizioni necessarie a una guida sicura: «La visibilità era buona, il fondo stradale asciutto, il cartello che informava dei lavori e del semaforo era presente lungo la carreggiata. Segnalazione che l’imputata aveva ben visto come si era accorta della presenza dei due motociclisti che viaggiavano davanti a lei». A pesare invece sulla colpa, grave, della donna era stato, appunto, il consumo di ‘erba’ e, soprattutto, la disattenzione condizionata, pochi minuti prima, dall’utilizzo sconsiderato del cellulare: «Scattava selfie (almeno otto quelli indicati nell’atto d’accusa, ndr) e si scambiava messaggi con il marito. Non di meno, aveva una velocità inadeguata, calcolata in almeno 70 chilometri all’ora, e non viaggiava con un’adeguata distanza, nella fase di avvicinamento al semaforo. Tutti elementi, con la mancata reazione tempestiva dovuta al superamento del valore limite di Thc nel sangue, che portano alla definizione della causa dell’incidente». E se la donna è risultata essere «pesantemente colpevole – come ha annotato Lanzillo – vi è un’assenza di qualsivoglia colpa da parte delle vittime». Un’imprudenza consapevole, per la pp, che aveva chiesto una pena di 30 mesi: «La sua capacità di guida era inficiata dall’uso del cellulare, confermato dal paesaggio che muta nelle varie fotografie presenti sul suo telefono. È vero che non vi sono prove oggettive che attestino che lo stesse utilizzando proprio nel momento dell’incidente, ma tale atteggiamento conferma il suo approccio alla guida totalmente inadeguato. Del resto – ha ribadito la procuratrice – l’ambito stradale è fra i contesti più pericolosi, tanto da dettare i pilastri su cui poggia nel diritto penale l’elemento della colpa. L’esistenza della vittima, nel pieno della vita, è stata dunque interrotta da un comportamento disattento e spudorato, non adeguato alle circostanze, tanto che solo per puro caso la compagna non ha subìto lesioni più importanti».
Daniele Meier, avvocato che in aula rappresentava la compagna sposata pochi mesi prima, ha posto l’attenzione sul momento del tragico investimento, quando la moglie della vittima, che lo seguiva su una seconda moto, aveva dovuto prestare il primo soccorso, lei medico, al compagno a terra in fin di vita: «Dolorante e con il timore di essersi rotta il bacino, ha dovuto chiedere aiuto. Urlava dal dolore, lascio a voi immaginare la scena... Un sentimento da lei vissuto forte e devastante tanto che non è più riuscita, una volta rientrata in Patria, a fare il medico in quanto vedeva sempre il viso del marito nei pazienti che stava curando. Una sofferenza morale importante, che fatica ancora oggi a superare». La colpa della trentenne bulgara è quindi «grave ed esclusiva, per il solo fatto di un consumo usuale di canapa e il vezzo di ritrarsi con selfie in tutte le pose e in tutte le fogge. Del resto, e non si può non parlare di negligenza – ha chiosato il legale che non ha mancato di accennare alla linea sottile fra omicidio colposo e omicidio intenzionale con dolo eventuale – la signora, che ha pensieri solo per se stessa, era appena stata dal parrucchiere...».
Un intervento ribadito dal collega Ergin Cimen, rappresentante dei due figli del primo matrimonio e dei genitori della vittima, che ha ricordato come l’imputata nel momento concitato dell’incidente si era giustificata con la moglie ammettendo di essere stata distratta dal cellulare: «Il fatto che non sia stato possibile stabilire se stesse proprio in quel momento visualizzando foto o video presenti nel cellulare, ma di aver avuto unicamente i dati degli autoscatti, ci porta purtroppo a non poter contare sulla discriminante legata alla negligenza cosciente e dunque al dolo eventuale».
Una pena contenuta in 16 mesi, era stata invece la richiesta della difesa, sostenuta dall’avvocato Stefano Marinetti, che aveva giustificato l’uso della marijuana per scopi analgesici, ovvero attutire i dolori del ciclo mestruale. Appena pronunciata la sentenza, il legale della trentenne ha annunciato ricorso in Appello.