Il Cantone investe per formare profili che poi vanno a lavorare per aziende delle regioni metropolitane elvetiche. Due studi illustrano i motivi delle partenze
Fuga di cervelli dal Ticino, se ne vanno in 800 l’anno circa. Anche giovani molto preparati che, partendo, indeboliscono il potenziale economico del Cantone. Se ne vanno per trovare un posto di lavoro che corrisponda alle loro capacità e che sia ben remunerato, c’è chi cerca più sicurezza, c’è chi vuole vedere il mondo. In quasi tre decenni, ci illustrano le statistiche, sono oltre 9mila i giovani che hanno lasciato il Ticino per trasferirsi in altri cantoni o all’estero. Un trend nuovo che non accenna a rientrare - anzi è confermato dai nuovi dati del 2020 - e solleva non pochi interrogativi: il rischio è quello di investire per formare profili che poi, in buona parte, vanno a lavorare per aziende delle regioni metropolitane elvetiche. Purtroppo a fronte di 800 cervelli che se ne vanno ogni anno, non ce ne sono altrettanti che arrivano da altre regioni elvetiche, impoverendo così il tessuto locale. Sembra che il Cantone stia perdendo di attrattività nei confronti dei giovani formati, un’emorragia che le autorità stentano a fermare. Daltronde come può un cantone periferico come il Ticino competere con Zurigo, Ginevra... per salari e opportunità di lavoro?
Due studi sulla mobilità dei giovani ticinesi, ci aiutano a leggere il fenomeno sia dal punto di vista storico e sia da quello sociale, analizzando le motivazioni di chi parte e chi partiva generazione dopo generazione.
Un 19enne su due in Ticino ritiene probabile un trasferimento in un’altra regione nei prossimi cinque anni. Emerge dall’inchiesta federale sulla mobilità in Svizzera o verso un altro Paese, condotta nel 2016/2017 dalle inchieste federali ch-x che ha coinvolto 40mila giovani (19enni) elvetici, durante il reclutamento e duemila giovani donne. L’indagine fotografa come la spinta a muoversi sia decisamente più marcata nella Svizzera italiana rispetto al resto del Paese: il 23 per cento dei giovani svizzeri italiani (contro il 2% degli svizzeri tedeschi e il 4% dei romandi) risponde che ritiene molto probabile lo spostamento in un’altra regione o Paese nei prossimi 5 anni. Aggiungendo chi lo farà probabilmente, si arriva addirittura al 47% dei 19enni ticinesi e grigionesi (contro il 7% dei cugini tedeschi e il 12% dei cugini francofoni). Le motivazioni date dai giovani sono perlopiù migliori opportunità professionali, salari più elevati.
La migrazione dei giovani ticinesi non è una novità, ma aveva proporzioni più contenute, motivazioni diverse e chi partiva per studi accademici spesso rientrava. Tendenze queste fotografate da un interessante studio condotto dallo storico Amos Speranza, che ha dedicato il suo lavoro di mémoire all’Università di Neuchâtel alle migrazioni degli studenti ticinesi mettendo a confronto le motivazioni di tre generazioni. Quella dei ‘nonni’ che hanno studiato negli anni 50, quella dei figli che sono andati all’università negli anni 70 e quella dei nipoti che studiavano negli anni 2000. «Questo approccio intergenerazionale ha permesso di focalizzare come sono cambiate negli anni le motivazioni, le destinazioni, gli indirizzi di studi e la propensione a rientrare in Ticino, assai meno marcata nell’ultima generazione», spiega il ricercatore ticinese Amos Speranza, attualmente impegnato in una ricerca sostenuta dal Fondo Nazionale Svizzero (FNS/SNF) presso l’Università di Lucerna.
Le diverse generazioni sono confrontate a fattori preponderanti diversi. «Per la prima generazione (quella dei nonni) la scelta degli studi, laddove le possibilità economiche lo permettessero, era dettata da strategie famigliari. Quella che potremmo definire l’élite, lasciava il Ticino per studiare diritto o medicina a Berna, Zurigo o Ginevra. L’obiettivo era rilevare l’attività di famiglia (spesso lo studio medico o quello legale del padre), ma c’erano anche figli di artigiani inviati a studiare (ad esempio economia) per costruirsi un futuro migliore. Per questa generazione, terminata l’università, c’era la certezza di tornare in Ticino, dove ad aspettarli c’era un posto di lavoro certo», precisa il ricercatore.
Passiamo ora alla generazione dei figli, chi è partito negli anni 70 per studi accademici fuori Ticino: «Per la seconda generazione l’approccio cercava di coniugare interessi personali e disegni di natura piuttosto utilitaristica: fare nel limite del possibile quello che si desiderava, purché garantisse uno sbocco professionale concreto e per il quale lo sforzo valesse la pena. Spesso non si trattava di rilevare o integrare un’attività famigliare, la priorità era raggiungere uno sbocco professionale chiaro e attestato». In quegli anni l’implementazione del sistema di borse di studio favorisce l’accesso alla formazione universitaria anche ai meno abbienti. «Una delle conseguenze è la differenziazione delle destinazioni (molti iniziano ad andare anche a Losanna e Friburgo) e dei percorsi di studio, che si allargano sia alle scienze umane e sociali, sia alle formazioni tecniche e scientifiche. Per questa generazione il rientro in Ticino, dopo l’università, è molto frequente».
Veniamo infine alla terza generazione, quella dei nipoti, agli studi negli anni 2000. «Le interviste illustrano che l’attuale generazione è confrontata ad una situazione sociale e professionale che rende le conseguenze di qualunque scelta molto meno chiare. L’aspetto professionale è meno rilevante rispetto all’esperienza di studio. Si sceglie cosa e dove studiare in base ai propri interessi e inclinazioni, ai contatti famigliari, alle capacità linguistiche, ai contatti informali con ex studenti e all’offerta di svago della città». La mobilità per questa generazione è una realtà di vita. «È tramontata l’era del posto fisso, ci si muove in un contesto meno definito, dove si deve sapere reagire a ciò che succede. Non c’è fretta di tornare in Ticino dopo gli studi universitari, il resto del mondo è più allettante per fare carriera. Esaurita la parabola professionale, forse, si pensa al Ticino, se si vuole creare una famiglia, ma si deve trovare un’occupazione interessante», conclude. E questo è uno scoglio che tanti non riescono a superare.
Un 19enne su due in Ticino ritiene probabile un trasferimento in un’altra regione nei prossimi 5 anni. Questo dato - che riflette il nuovo trend demografico di emorragia di giovani cervelli (se ne vanno 800 l’anno dal Ticino) - è emerso dall’inchiesta federale sulla mobilità in Svizzera o verso un altro Paese, condotta nel 2016/2017 dalle inchieste federali ch-x, che ha coinvolto 40mila giovani (19enni) elvetici, durante il reclutamento e duemila giovani donne.
L’indagine fotografa come la spinta a muoversi sia decisamente più marcata nella Svizzera italiana rispetto al resto del Paese: «Il 23 per cento dei giovani svizzeri italiani (contro il 2% degli svizzeri tedeschi e il 4% dei romandi) ha risposto che ritiene molto probabile lo spostamento in un’altra regione o Paese nei prossimi 5 anni. Aggiungendo chi lo farà probabilmente, si arriva addirittura al 47% dei 19enni ticinesi e grigionesi contro il 7% dei cugini tedeschi e il 12% dei cugini francofoni», ci spiega il sociologo Luca Bertossa, responsabile scientifico delle Inchieste federali fra la gioventù ch-x.
Riguardo i motivi dell'emigrazione, emergono tre profili: gli interessati lungimiranti, i curiosi, i pragmatici. «Il 40% circa persegue uno scopo ben preciso, parte perché vuole avere chance migliori di impiego, di salario, magari va a studiare una lingua straniera; un altro 35% è invece curioso di scoprire una nuova cultura e parte per spirito di avventura con l’obiettivo di godersi la vita; un rimanente 25% non ha ancora un chiaro obiettivo di quello che vorrà fare, prende le distanze dalla vita quotidiana, investendo al meglio il proprio tempo», precisa il ricercatore. Di regola, la mobilità è proprio un tratto della generazione dei Millennials. «Pressappoco il 40% dei 19enni intervistati aveva già alle spalle esperienze all’estero o in patria per soggiorni linguistici», conferma il sociologo.
Veder partire dal Ticino cosi tanti giovani ogni anno può significare in prospettiva anche perdita di creatività, capacità manageriali, contributi culturali. Quanto si impoverisce il Ticino? «Non sarebbe un problema se questa emorragia fosse compensata da giovani che arrivano da altri Cantoni, ma purtroppo non è così. In Ticino ad aumentare è invece il frontalierato, ma la cultura di base del lombardo non differisce sostanzialmente da quella del ticinese. Quindi c’è effettivamente il rischio di un impoverimento culturale. Il mercato ticinese è piccolo e non offre molte possibilità peculiari e con carattere di unicità ai lavoratori elvetici», commenta.
C’è poi un aspetto culturale da non sottovalutare. «Osservo che in Svizzera l’interesse per l’italianità va scemando; negli anni passati sono state fatte lotte per mantenere ad esempio le cattedre di italiano nelle università o una presenza di italofoni nell’amministrazione federale. Ora la sensibilità sembra cambiata e non è un buon segnale per la Svizzera italiana in genere».
Tra tanti che partono c’è anche chi resta, anche qui le motivazioni sono diverse, e si delineano 4 profili: i ‘forzati a restare’, gli ancorati, gli indifferenti e gli stanziali. «Il 32% è costretto a non muoversi perché non dispone di mezzi finanziari, non sa le lingue nazionali o non ha fiducia in se stesso; un altro 26% è ben radicato professionalmente e socialmente nella realtà locale dove sta bene, vuoi perché è attivo in politica, gioca a calcio o suona nella banda di Paese; il 22% esprime una generica mancanza di interesse; infine c’è un 21% che ha già pianificato la sua vita nella Svizzera italiana, alcuni lavorano nella ditta di famiglia, altri sono già sposati».
Elio Venturelli che ha diretto per tre decenni l’Ufficio cantonale di statistica ha delineato per la prima volta nel 2015 l’esodo dei giovani dal Ticino (nel suo studio Ustat ‘Vivere sempre più a lungo in una società in via di estinzione, tre decenni di demografia in Ticino’). Si immaginava che questo trend si accentuasse? «Francamente no. Trattandosi di un fenomeno nuovo sono stato preso un po’ alla sprovvista e non ho saputo interpretarne le cause profonde che già erano presenti nel substrato socio-demografico cantonale. Oggi si parla normalmente di ‘fuga dei cervelli’ senza poterne quantificare l’entità (sono veramente i migliori che non tornano?) né documentarne le cause», commenta Venturelli.
Risposte parziali sono state fornite da alcune ricerche di Ustat (“Migrazioni: focus sulle partenze dal Ticino”, di Francesco Giudici, Matteo Borioli, Danilo Bruno) e Supsi 2, ma le vere caratteristiche dell’esodo rimangono ancora a livello di ipotesi. La mobilità è sicuramente sempre più una costante nelle nostre vite, i progressi tecnologici impongono una formazione continua e spesso spostamenti. «Stupisce però che le aziende cantonali non approfittino di questo plus valore formativo e molti giovani non possano rientrare in Ticino se non a condizioni proibitive per formare una famiglia. A loro, è oramai appurato, vengono preferiti i frontalieri, sempre più qualificati e disposti a lavorare con stipendi fino al 30% inferiori», dice Venturelli.
Per cercare di fornire qualche risposta a questi interrogativi, Coscienza Svizzera organizzerà un Simposio alla Supsi a Viganello il 22-23 ottobre con numerosi interlocutori interessati all’argomento. «I problemi più importanti da approfondire sono la competitività delle nostre aziende e le condizioni affinché possano offrire condizioni salariali adeguate al costo della vita per i residenti. Dall’altro, e questo è un aspetto relativamente nuovo, come fare in modo che i prezzi di prodotti e servizi offerti in Ticino siano più bassi, in modo da permettere di vivere decorosamente, anche con salari comparabili a quelli della vicina Italia?», propone Venturelli. Un esercizio certo di non facile applicazione, ma almeno è una proposta. «La mia impressione, ma spero che i risultati della riflessione e l’impegno dei politici, la possano contraddire, è che il Ticino si trovi in un vicolo cieco», conclude.
La demografia non da grattacapi solo al Ticino. ‘Cambiamento demografico e coesione della Svizzera’ è il titolo del postulato inoltrato dal consigliere agli Stati (Ppd) Würth Benedikt al Consiglio federale. Solleva appunto il problema dei cambiamenti demografici di alcuni cantoni: in quelli periferici e rurali, calano i giovani attivi attirati dai centri e aumentano gli anziani, in un Paese, dove i nati nel periodo del ‘baby boom’ (e sono davvero tanti) si stanno avviando verso la pensione. Questi flussi comportano massicci spostamenti anche sul piano delle risorse. Le pressioni derivanti dalle uscite per la sanità minacciano la sostenibilità delle finanze di molti cantoni. A causa di queste tendenze le disparità intercantonali per quanto riguarda la capacità finanziaria potrebbero aumentare. L'Esecutivo federale, pur riconoscendo il problema, risponde che la perequazione finanziaria in una certa misura va già a compensare le crescenti disparità tra i Cantoni. Ovviamente ciò vale anche se queste sono causate da mutamenti demografici.