Albertoni: chiedere ai dipendenti se sono vaccinati è ‘concesso in modo limitato’
Posso chiedere ai miei dipendenti se sono vaccinati? Devo fare differenze fra chi lo è e chi no? Sono queste alcune domande che si pongono molti datori di lavoro. Il presidente della Commissione federale per le vaccinazioni Cristoph Berger ha recentemente suggerito ai microfoni della Srf di utilizzare i certificati Covid anche sul posto di lavoro per evitare continui test. «Le aziende seguono la legislazione in atto quindi al momento non possono formalmente pretendere nessun obbligo a presentare una certificazione per far lavorare», spiega alla ‘Regione’ Stefano Modenini, direttore dell’Associazione industrie ticinesi (Aiti). «Resta in linea generale un invito a immunizzarsi perché evidentemente in questo modo si è protetti dalla malattia e ciò permette anche di evitare assenze e problemi con i colleghi sul posto di lavoro. In più, abbiamo visto, in particolare questo fine settimana con la lettera del medico cantonale, che anche lo Stato fa pressioni sempre più forti per quanto riguarda la raccomandazione a vaccinarsi. Ogni azienda cerca quindi di sensibilizzare i propri collaboratori in questa direzione, chiaramente rispettando anche chi non è d’accordo, ma tutti i datori di lavoro sono tutelati nella misura in cui possono applicare delle restrizioni a chi non può garantire la propria non contagiosità. Una misura in tal senso potrebbe essere quella di mantenere l’uso della mascherina per i dipendenti non vaccinati».
Ma un’azienda, a livello legale, può chiedere ai dipendenti se sono immunizzati? «È una domanda concessa in modo limitato, come per quella sull’eventuale gravidanza quando si assume una donna», ci dice Luca Albertoni, direttore della Camera di commercio del cantone Ticino. «Però è chiaro che va valutata la questione. Se essere vaccinati è essenziale per svolgere un certo tipo di lavoro, allora c’è un certo margine. Un esempio può essere quello dei viaggi professionali in Paesi che richiedono l’immunizzazione. Ci sono comunque delle condizioni abbastanza rigorose per poter porre questo tipo di domande».
Secondo Giangiorgio Gargantini, segretario regionale del sindacato Unia, «la legislazione in vigore impedisce questa richiesta diretta da parte del datore di lavoro, visto che entriamo chiaramente nel campo della sfera privata. È peraltro innegabile che siamo confrontati con una situazione sanitaria grave che stravolge la concezione comune della situazione». Al riguardo Gargantini chiede «una chiara comunicazione da parte delle nostre autorità sanitarie e politiche su cosa sia necessario fare per assicurare la protezione della popolazione e in che modo bisogna farlo». Molti datori di lavoro si chiedono se debbano adottare delle misure specifiche: secondo il segretario Unia non dovrebbero essere le aziende a dover decidere cosa fare.
Nel caso un’azienda prenda dei provvedimenti, non c’è il rischio che le persone non vaccinate vengano discriminate sul posto di lavoro? « Il rischio di discriminazione nasce soprattutto quando una determinata attitudine è definita al di fuori di contesti legali e giuridici valutati e approvati – prosegue Gargantini –. Se e quando ci saranno delle direttive precise bisognerà valutarle per capire se ci siano o no un rischio discriminazione o altri aspetti problematici». L’importante, per il sindacato, è che vengano rispettati tre postulati: «Il primo è il diritto al lavoro, non si può privare qualcuno del diritto di andare a svolgere la propria professione. Il secondo è la necessità di avere una protezione della salute collettiva. Il terzo è che bisogna assolutamente evitare che si parta in modo differenziato, cioè che ogni azienda abbia misure differenti. Si creerebbe un caos ingestibile che sarebbe qualcosa di pericoloso».
Per ora, riguardo a misure speciali al lavoro per chi non è vaccinato, «non ci sono prescrizioni generali – riprende Stefano Modenini –, perché comunque le aziende praticano i piani di protezione della Confederazione che sono già noti e le persone all’interno delle industrie sono ormai sensibilizzate da tempo. In ogni caso, nonostante non sia ufficialmente obbligatorio, vediamo che molto spesso la mascherina è ancora utilizzata anche dalle persone già vaccinate. La preoccupazione centrale resta comunque quella di non creare problemi ai collaboratori e ai colleghi immunizzati e non».
Per quel che concerne l’utilizzo del Covid pass al lavoro il direttore di Aiti non pensa che «verrà introdotto in Svizzera un obbligo vero e proprio di certificare l’avvenuta vaccinazione o guarigione perché i pareri sono abbastanza divisi. In questo scenario l’unica cosa che possiamo fare è invitare le persone a dichiarare il loro stato, sebbene nessuno sia tenuto a rispondere. In caso di introduzione di un tale strumento, un datore di lavoro può ad esempio conoscere la situazione del dipendente, il che è utile, nonostante i rari casi di contagio registrati tra la popolazione immunizzata, perché la grandissima parte dei dipendenti non si ammalerà o non sarà sottoposta a quarantena in caso di contatto con un positivo. In tal senso, essere a conoscenza dello stato di salute dei propri collaboratori probabilmente per le aziende rappresenterebbe un vantaggio. Ciononostante, ribadisco che dubito che ci sarà un obbligo generalizzato in Svizzera a presentare un certificato Covid sul posto di lavoro. Verosimilmente resterà una forte raccomandazione a vaccinarsi».
E per quanto concerne i test in azienda? «La fase dei test purtroppo in Ticino è partita con ritardo ed è arrivata sostanzialmente quando sono cominciate le vaccinazioni su larga scala – prosegue Modenini –. È però chiaro che chi non è vaccinato sicuramente può essere sottoposto a controlli maggiori, tra cui anche dimostrare di non essere positivo. Va però sottolineato che un obbligo formale adesso non esiste, sta a ogni azienda decidere. Bisogna pur dire che chi non vuole vaccinarsi qualche tutela maggiore la deve accettare». L’idea di presentare un documento, quello vaccinale, può creare differenze fra lavoratori? «Se da una parte è comprensibile se vi sono motivi di salute pubblica, dall’altra parte ci vuole equilibrio perché la questione è delicata», rende attenti Luca Albertoni. «Finora il buon senso e le misure di protezione hanno dato buoni risultati e ci piacerebbe che continuasse a essere così, senza misure draconiane imposte. Il limitarsi al solo vaccino, escludendo chi può ricorrere ai tamponi o è guarito, sarebbe ad esempio, dal nostro punto di vista, eccessivo. È chiaro che si tratta di una complicazione in più per molte imprese quindi è da valutare bene, mantenendo la proporzionalità di eventuali misure».
Il direttore della Camera di commercio ricorda che vi sono anche problemi pratici che «non possono essere risolti tutti col telelavoro. Non è possibile far lavorare da casa o in un altro regime tutti i non vaccinati. Ci sono molti risvolti pratici che rischiano di creare sia tensioni, che ci sono già nella società, sia difficoltà gestionali per le aziende stesse. Si rischia di andare verso l’obbligo di vaccino e personalmente ho parecchie riserve su quest’idea». Riguardo al telelavoro la situazione è cambiata: «Prima della pandemia c’era una forte richiesta e sembrava quasi di essere in ritardo su questo modo di lavorare. Poi c’è stato il telelavoro sistematico e abbiamo constatato che molte persone vogliono rientrare in ufficio perché si sono accorte che questa modalità, o perlomeno quando viene messa in atto tutti i giorni, non sempre è la migliore opzione. È dunque veramente difficile poter dire a priori quale sia la soluzione».