Le elezioni locali diventano un referendum ambientalista sui giacimenti, facendo perdere il partito al potere dal 1979. Ma i problemi restano
Il senso di Smilla - e della Groenlandia tutta - per l’uranio si ferma davanti alle urne. In un’elezione del parlamento locale che somigliava molto più a un referendum hanno vinto gli Inuit e perso i sostenitori di una miniera di metalli rari che avrebbe portato più investimenti, più inquinamento, ma anche un’instabilità sociale che oggi la Groenlandia non può permettersi nemmeno in cambio della montagna di soldi che arriverebbe in cambio. Attenzione però, non riduciamo tutto al mito del buon selvaggio che protegge le proprie sacre terre contro l’avanzare dei diavoli della globalizzazione.
In coda per votare (Keystone)
Le cose non sono quasi mai come sembrano, soprattutto in questa terra lontana e difficile, che sta vivendo lo scioglimento dei ghiacci in un modo tutto suo: perché in parte è un problema, ma in parte - almeno qui - è anche, se non soprattutto, una benedizione. Meno ghiaccio vuol dire più allevamenti, più agricoltura, più turismo, più possibilità di creare lavoro. Più opportunità. Una di queste opportunità era - e in parte è ancora - legata agli straordinari giacimenti di uranio, ferro, rame alluminio e terre rare: metalli ricercatissimi nell’industria attuale perché presenti nei nostri smartphone, nelle auto elettriche, nelle batterie, nelle turbine eoliche e negli impianti a fibra ottica. Per dare un’idea, quel che c’è là sotto è il sogno tanto dei militari quanto - anche se sembra un paradosso - degli ecologisti. Insomma, sotto questa terra congelata in un passato che non sembra mai stare al passo con il presente, c’è il nostro futuro. Lo sanno anche i groenlandesi, 56 mila anime disseminate sulle coste di un’isola enorme, seppur non gigante quanto la si vede sulle mappe distorte appese ai nostri muri, le cui dimensioni equivalgono a quelle sommate di Svizzera, Italia, Francia, Germania, Regno Unito, Austria, Danimarca, Belgio, Polonia e Portogallo. C’è un solo aeroporto internazionale, a Kangerlussuaq, nell’entroterra del lato occidentale. Da lì si riparte in aereo o in elicottero verso la propria destinazione: niente strade, come nella maggior parte del Paese, dove l’asfalto s’interrompe sempre e le cittadine sono collegate perlopiù via mare o - in inverno - dai percorsi attraversati dalle slitte trainati da cani groenlandesi (l’unica razza ammessa sull’isola).
La Groenlandia, passata sotto il dominio danese esattamente 300 anni fa (era il maggio del 1721 quando il predicatore protestante Hans Egede partì come missionario con la benedizione del re di Danimarca), spinge sempre più per diventare indipendente. Di fatto la sua economia è basata sulla pesca (per il 95%) e sui sussidi che arrivano da Copenhagen. Il resto è una serie di numeri tremendi: la più alta percentuale di suicidi al mondo, violenze domestiche e alcolismo dilaganti, un tasso d’istruzione preoccupante. Non è un caso che per i lavori più qualificati sull’isola arrivino da fuori: in primis danesi, poi europei e statunitensi.
Un sobborgo di Nuuk, rigorosamente sul mare (Keystone)
Le miniere, scoperte e studiate proprio in seguito allo scioglimento dei ghiacci, potevano e possono ancora essere un passo verso l’emancipazione e una reale indipendenza economica (e chissà, un giorno politica) dalla madrepatria, ma preoccupa il prezzo da pagare. Su una miniera in particolare, quella di Kuannersuit, si è scatenato un dibattito che ha reso un’elezione con una manciata di votanti in uno dei posti meno accessibili del pianeta per un Parlamento che non ha nemmeno i pieni poteri una cartina tornasole di quello che siamo diventati e vogliamo diventare, a qualsiasi latitudine.
Il partito Inuit (Inuit Ataqatigiit) che ha vinto, in parte a sorpresa, le elezioni con quasi il 37% delle preferenze non è contrario allo sfruttamento delle miniere. Ma a quella di Kuannersuit sì. Perché lì c’è da estrarre l’uranio a due passi dalla nona città più popolosa, diciamo così, del paese: Narsaq, 1’300 abitanti. L’idea di Siumut - il partito rimasto di fatto ininterrottamente al governo sin dal 1979 - era quella di frapporre una diga tra la miniera, con i suoi detriti radioattivi, e il centro abitato. Quella diga non è stata abbastanza convincente per i groenlandesi. E nell’elezione che nel frattempo era diventato un referendum, quelli di Siumut si sono fermati al 29 per cento. Avevano pensato a tutto, o almeno così credevano, vendendo le licenze a cinesi e americani e sfruttando il report del Polar Research che descriveva Kuannersuit come il secondo giacimento di terre rare più grande del mondo. Ma non avevano fatto i conti con chi in quelle terre vive o potrebbe trovarsi presto a convivere se altre miniere apriranno.
Starà ora al partito Inuit capire fin dove spingersi, sia nelle alleanze di governo, sia nel gestire vecchi e nuovi permessi. Anche le nuove rotte polari, di qui si parla da tempo, potrebbero dare vantaggi alla Groenlandia, che si trova su uno dei possibili tragitti del celebre Passaggio a Nord-ovest. I fatti delle scorse settimane a Suez ci hanno fatto capire quanto possa generare ricchezza e lavoro il traffico marittimo se intercettato e gestito nel modo giusto. Donald Trump, che alla Casa bianca sembra un po’ un Inuit all’equatore, ma che di affari se ne intende, un paio d’anni fa cercò direttamente di comprarsela la Groenlandia, andando a chiedere il prezzo ai danesi. Non se ne fece nulla, come prevedibile. Ora resta il destino beffardo che, dopo 300 anni sotto dominio altrui, dà al popolo dei ghiacci la possibilità di gestire effetti e conseguenze del ghiaccio che s’assottiglia, lasciando intravedere ricchezze, polemiche, battaglie ambientaliste e, chissà, forse perfino una nuova nazione indipendente.
La campagna ambientalista (Keystone)