Per la Corte delle Assise criminali presieduta dal giudice Marco Villa è stato lui a spingere la moglie dal balcone, uccidendola
Le lacrime, il capo chino, la testa tra le mani. È disperato il 39enne eritreo quando apprende che è appena stato condannato a 16 anni di carcere per avere ucciso la moglie spingendola giù dal quinto piano di una palazzina in via San Gottardo a Bellinzona, la sera del 3 luglio 2017. Assassinio il reato configurato dalla Corte delle Assise criminali presieduta dal giudice Marco Villa (giudici a latere Renata Loss Campana e Manuel Borla) che sul conto dell'uomo ha inoltre sancito l'espulsione dalla Svizzera per 15 anni e l'obbligo di risarcire i due figli rimasti orfani con 50mila franchi ciascuno (abbracciando così la richiesta del legale dell’accusa privata, Demetra Giovanettina). Non ha quindi retto la tesi difensiva sostenuta dall’avvocata Manuela Fertile, che durante la sua arringa aveva chiesto il proscioglimento del suo assistito, sostenendo che la donna si sia suicidata per farla pagare al marito che non riconosceva la sua fedeltà, e che il coniuge abbia cercato di salvarla senza riuscirsi. «Difficile credere che si sia uccisa per punire il marito di non crederle, facendo così cadere la colpa su di lui», ha affermato Villa, escludendo l’ipotesi che la moglie volesse giungere al risultato di privare i suoi figli di entrambi i genitori.
Limpido, per la Corte, il movente dell'uomo: «stupida, becera e assurda gelosia». Una gelosia, ha sottolineato il giudice Villa, ancora più ingiustificata date le spiegazioni che sia la vittima che la dottoressa della donna avevano dato al marito, al quale era infatti stato spiegato chiaramente che non esisteva nessuna gravidanza e che l'epatite B contratta dalla donna (che il marito imputava a una relazione extraconiugale) aveva invece origine remota e non era ad ogni modo dovuta a un rapporto sessuale. La sera del 3 luglio 2017 ha affrontato la donna a muso duro per estorcerle finalmente il nome del presunto amante. Nel soggiorno, dopo un accesso confronto fisico e verbale, ha quindi perso il controllo e l'ha voluta punire a causa del suo silenzio. Il suo senso punitivo, ha continuato il giudice, «lo ha portato a compiere un gesto inaccettabile: ha ucciso la madre dei suoi figli solo perché lui, quella sera, doveva arrivarne ad una».
Ridotta di due anni la pena proposta dal procuratore pubblico Moreno Capella (il quale ne aveva chiesti 18) a causa della specificità della situazione personale dell’imputato, del suo passato travagliato, dei tre anni e mezzo di carcere già scontati e del lungo periodo che ancora dovrà passare lontano dai suoi affetti e dalla sua patria.
«Si è pentito solo quando il danno irreparabile era ormai stato fatto». Lo dimostrano – ha spiegato Villa – i cinque minuti che ha impiegato per scendere sul piazzale dopo la caduta della moglie da un'altezza di circa 18 metri. Cinque minuti in cui l’imputato si è «inventato una storia credibile ai suoi occhi», ma che non ha retto per la Corte, soprattutto a causa delle ricostruzioni tecnico-scientifiche affidate all'Istituto di medicina legale di Berna, che così ha concluso: solo attraverso una spinta, e non un atto volontario di lasciarsi cadere, il corpo della vittima poteva giungere dove è stato trovato (a circa tre metri e mezzo dell’edificio). Ergo: se la donna si fosse suicidata, e il marito fosse dunque riuscito a trattenerla nel vuoto dopo averla afferrata per il polso, «mai il corpo avrebbe potuto raggiungere la posizione in cui è stato trovato», ma sarebbe stato più vicino al muro della palazzina. Inoltre, ha aggiunto Villa, è solo attraverso un movimento rotatorio frutto di una spinta che il corpo della vittima poteva atterrare sull’asfalto dalla parte della testa. «Pur non avendo sufficienti elementi per sostenere senza dubbio alcuno che sia stato lui a mettere la moglie a cavalcioni sul parapetto», la Corte ha accertato che «trovarsi lì era di certo contro la sua volontà. Altrimenti mal si comprenderebbero le importanti escoriazioni rinvenute sul suo braccio sinistro, che altro non sono che un innegabile segno dell’aggrapparsi al parapetto». La donna ha insomma cercato di contrastare la forza del marito. «Segni che non ci sarebbero mai stati se la vittima, come sostenuto dalla difesa, si fosse fatta scivolare», ha aggiunto Villa, escludendo così l’ipotesi del suicidio. «Parliamo inoltre di una persona positiva, fiera e felice di poter dare un futuro a se stessa e ai suoi figli in Svizzera. Partendo dall’Eritrea, aveva superato un ’viaggio della speranza’, raggiungendo il marito che aveva sposato per amore. In Ticino aveva trovato il suo ’El Dorado’, e appena lo raggiunge si suicida lasciando orfani i suoi bambini? C’è francamente da chiedersi quale madre lo farebbe. Forse nel caso di una persona fragile, ma nessuno aveva mai indicato problemi di natura psichiatrica e comportamentale della vittima». La Corte ha inoltre considerato i verbali di alcuni vicini di casa della coppia: mentre la lite proseguiva sul terrazzo, i testimoni hanno udito «almeno una voce maschile alterata e, dopo una ventina di secondi, l’impatto del corpo sull'asfalto». Non espressasi in aula alla precisa domanda del giudice, l’avvocata Fertile valuterà prossimamente se impugnare la sentenza e ricorrere al Tribunale d’appello e di revisione penale.
In applicazione del principio in dubio pro reo, l’imputato è stato invece prosciolto dall’accusa di tentato assassinio, subordinatamente omicidio intenzionale, in merito ai fatti del 29 maggio 2017 (poco più di un mese prima della tragedia), quando secondo la pubblica accusa l’uomo aveva già cercato di spingere la moglie giù dal balcone. La Corte ha ritenuto che le sole testimonianze agli atti non siano sufficienti per la realizzazione soggettiva e oggettiva delle due ipotesi di reato.