Berlinale

'Schwesterlein', un grande film svizzero illumina Berlino

Schwesterlein’ ha la maestria del linguaggio cinematografico e si candida autorevolmente all’Orso d’Oro. Delude Abel Ferrara, chiuso nei soliti cliché

'Sorelline' (© Vega Film)
24 febbraio 2020
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Un lungo applauso alla proiezione stampa ha accolto in concorso il film svizzero  ‘Schwesterlein’  di  Stéphanie Chuat e Véronique Reymond, un film che subito si candida autorevolmenteb all’Orso d’Oro di questa Berlinale numero 70.  ‘Schwesterlein’  (Sorellina) è un film che non vuole comprare lo spettatore, che non lo compiace, che non diverte, è un film che costringe all’inchino di fronte alla maestria del linguaggio cinematografico, un film che non risparmia né emozioni né commozioni, intriso com’è di quella pietas cara ai romani, sentimento che indica  amore, compassione e rispetto. Le registe compongo un film inappuntabile, capace di dire, raccontando un fatto, del nostro tempo e dell’arduo essere donne. Capace di dire del dolore e della felicitá che solo il donarsi sa dare. Si resta sorpresi per la civiltá  che illumina i dialoghi, la musica, le citazioni teatrali, il mostrare i paesaggi della vita.

Le registe ci fanno conoscere Lisa (un’intensa Nina Hoss), una drammaturga che ha abbandonato ogni sua ambizione artistica per seguire, insieme ai figli, il marito che gestisce una scuola internazionale in Svizzera. Per lei le cose cambiano quando Sven (un bravissimo Lars Eidinger), suo fratello gemello, attore shakespeariano di fama, si scopre malato di inguaribile leucemia. La loro madre (preciso cammeo di Marthe Keller) rifiuta il male del figlio, non riesce a sopportarlo, Lisa si sente in dovere di mettersi al fianco del fratello, di donarsi a lui, ma nello stesso tempo il marito decide di ampliare il suo lavoro, di lasciare la Svizzera per cinque anni, lasciando a lei la sola possibilitá di seguirlo. Lisa si sente tradita dall’uomo e dalla vita, decide di condividere il suo tempo con il fratello, di battersi per lui, di farlo tornare in teatro, quel teatro che per loro è la vita. Guardandolo pensa a Hänsel e Gretel, attraverso i fratelli Grimm capisce che la strega da combattere esiste ed è il male del fratello e che la casa di cioccolato che entrambi amano è quel teatro cui lei dedica il suo testo più bello, quello che lui malato reciterá da solo, nella scena ultima della sua vita, a letto morendo. Senza mai porre accenti sul giá doloroso racconto, le registe accompagnano lo spettatore nella profonditá del proprio esistere, regalando infine, anche di fronte al lutto, un illuminato sorriso d’umanitá.

Volgarità e abusi d’esercizio

Pur parlando di pressanti argomenti di piccola e generale attualitá – le bollette che scadono, le poste che chiudono, il riciclo delle persone  tra amazon, uber e lavori più umilianti, il cyberbullismo, i ricatti con i video a sfondo sessuale, l’intrusione nella vita dei vari call center, la solitudine gallecciante, e tanto ancora – ‘Effacer l’historique’ dei francesi Benoît Delépine e Gustave Kervern, non riesce ad andare oltre il cuocere un minestrone malassortito e bruciato. Più che un film, è un groviglio di gag più o meno volgari e non riuscite, accompagnato da musicacce dozzinali. Protagonisti un trio di vicini in una periferia francese: Marie che vive dell’assegno di famiglia di suo marito, ha paura di perdere il rispetto di suo figlio a causa di un sex tape di cui è protagonista in una notte in cui si era ubriacata; Bertrand che non sa dire di no alle chiamate pubblicitarie, anzi si masturba ascoltando le voci delle venditrici, mentre sta faticosamente lottando per proteggere sua figlia, vittima del bullismo online; poi c’è Christine che ha perso tutto per una sua droga personale, le serie tv. Non sono eroi, sono comuni perdenti cui viene offerta la possibilitá di rialzarsi. Peccato che manchi il film. Ancora in Concorso ‘Siberia’ di un Abel Ferrara incapace di uscire di suoi soliti cliché, con il solito Willem Dafoe come suo alter ego. Il film è un viaggio immaginifico nella mente distorta di un uomo che rimpiange io padre, che sogna di fare l’amore con la madre, che celebra la violenza fine a se stessa e si accoppia con una ragazza incinta. Intanto i cani da slitta ululano, prima di finire tra le sabbie del deserto e in una grotta cupi fantasmi cercano spazio. Ci si annoia di fronte all’abuso di un esercizio cinematografico vecchio e inutile con i suoi richiami a una psicanalisi frettolosamente digerita.

Sepolcri sporchi di sangue

Si resta invece agghiacciati, fuori concorso nella sezione ‘Forum’, di fronte a un film particolare com’è ‘Responsabilidad empresarial’ dell’argentino Jonathan Perel. Un film che indaga sul sanguinoso regime militare che governò l'Argentina dal 1976 al 1983, soffermandosi sul fatto che questo regime sia stato definito una “dittatura civile-militare” a causa del forte coinvolgimento dei settori civili nelle sue azioni. Grandi fabbriche e aziende erano i principali beneficiari delle politiche economiche del periodo, le stesse hanno contribuito attivamente alla tragica repressione dei lavoratori e dei delegati sindacali. Perel seglie una dura formula espressiva: gira inquadrature fisse davanti ai portoni di queste compagnie in tutta l’Argentina oggi, la maggior parte di quelle incriminate allora è ancora attiva.

Le immagini diventano quelle di un cimitero aperto, sono lapidi su cui scorre insieme ai nomi Fiat, Mercedes, Dalmine, e decine ancora, il numero e il nome dei morti che furono condannati dalla direzione di quelle fabbriche. Sono sepolcri sporchi di sangue e dollari, di guadagni nati dallla riduzione del costo del lavoro, dai debiti gonfiati per ricevere i fondi statali, ed in cambio le aziende consegnavano i lavoratori pericolosi, perchè pretendere uno stipendio equo è un delitto, sempre. I vertici di tutte quete aziende sono ancora impuniti. Il cinema è memoria che fa male.