Diploma di postino in tasca, Mattia Falcone vede la musica come una possibile prospettiva
Diplomato postino, impiegato in logistica, e 24 anni compiuti il 19 settembre. Mattia Falcone, in arte Mattak, ha però un ‘Piano B’ che vorrebbe realizzare nella sua vita: quello della musica. Il giovane di Comano, infatti, in attesa del nuovo album, si sta ritagliando un posto tutto suo nel panorama rap contemporaneo.
Cominciamo dai social. Qualcuno ha scritto: ‘Sempre la solita storia, ogni volta che ascolti Mattak, metti play e dopo meno di un minuto ti ritrovi a domandarti come sia possibile che questo ragazzo svizzero non sia al top del rapgame italiano’. Cosa manca a Mattak per farsi conoscere dal grande pubblico?
Mancano dei dischi ufficiali! È questo un po’ lo step capace di affermare un artista. Come dice Egreen (rapper italiano, ndr) ‘le mosse contano quanto l’abilità in scrittura’. Tu puoi essere bravo quanto vuoi ma poi devi saperti muovere in questo rapgame. Non sono ancora così esperto, ci sto lavorando...
Intendi anche il sostegno di una casa discografica importante?
Sì, un’organizzazione dietro ti aiuta anche a definire le date, a trovare contatti. Perché poi alla fine la musica è anche business non è solo... musica. Io il business non lo so ancora fare, mi serviva avere qualcuno vicino. Attualmente ce l’ho e ci stiamo lavorando.
Hai mai pensato alla tua partecipazione a un talent?
Sono stato recentemente contattato dalla produzione di X Factor. Ho però rifiutato perché non mi piace il format per quanto riguarda il rap. Per il resto della musica può andare bene non per il rap in quanto limitante e pieno di paletti. Inoltre le cover sono spesso al centro dello spettacolo e nel rap non sono proprio ben viste. La forza del rap sta infatti nello scriversi i testi da soli. Inoltre vorrei arrivare al top con le mie sole forze.
È vero che spesso al rapper interessa più la musica in senso stretto anziché a una condivisione più ‘commerciale’?
Soprattutto una volta questo era un valore. Adesso la maggior parte guarda più a fare soldi e meno a far musica...
Pare che il rapper sia diventato un personaggio, completo di ‘divisa’, spesso sopra le righe, e stravaganze...
Esatto! Ce ne sono tanti al giorno d’oggi che danno molto peso alla propria immagine. Tornando alle mosse. Fare il personaggio è una di queste. E spesso conta più, purtroppo, che fare una buona musica...
Tu una volta mi hai detto: i testi rispecchiano il mio animo. Io quando sono felice esco di casa non scrivo certo canzoni!
La musica è una valvola di sfogo. C’è chi fa canzoni ‘positive’, però in generale non è così.
Quando hai cominciato a comprendere che il rap poteva essere la tua strada? Che lettere e timbri possono, per ora, aspettare?
Principalmente dai consensi che raccoglievo dagli altri. Ancora adesso nello scrivere ho problemi di autostima. Per farla breve mi faccio sempre schifo! Certo questo mi aiuta un sacco ad impegnarmi tantissimo. Il fatto che i riscontri sono positivi mi porta a pensare che sono sulla buona strada.
Dove prendi gli stimoli per i tuoi testi? Quale momento del giorno ti è più d’aiuto?
In realtà non lo so... possono arrivare da qualsiasi cosa e in qualunque momento. La maggior parte delle rime mi vengono per caso. Sono stimoli esterni che in fondo con il rap non c’entrano nulla. Poi ci sono volte dove invece mi impegno e penso penso penso... però principalmente da quello che vivi e che poi tu racconti e butti fuori.
Una canzone in particolare a cui sei legato.
Sono molto legato alla canzone ‘Sinister Jerry’ perché credo mi sia venuta molto bene, abbastanza comprensibile anche per un certo tipo di pubblico che non segue un rap fitto e pieno di metriche, ricercato che è in generale quello che cerco di fare. È girata abbastanza, sia in Ticino che in Italia. Ed è molto significativa perché racconta una cosa vera che ho vissuto, disagi psicologi vari. È un bel pezzo che mi rappresenta appieno.
La famiglia ti sostiene e ti capisce nella tua arte?
I miei genitori ci hanno messo un po’... quando hanno visto che tanti ragazzi mi ascoltavano, quando hanno visto i numeri su Youtube hanno avuto un ‘risveglio’: cavolo, allora nostro figlio! All’inizio dunque ero solo io con me stesso, e ci stava anche, adesso mi supportano tantissimo.
Hai citato Youtube. Quanto i canali social sono fondamentali oggi per un giovane musicista?
Dipende da che obiettivi hai. Se vuoi farti conoscere Instagram è la strada perfetta. Facebook sta morendo, così Youtube, sta calando perché c’è Spotify. Se vuoi essere un bravo musicista e basta non ti servono questi canali. Se invece vuoi farne un lavoro non puoi non utilizzarli; devi ingegnarti e far girare la tua musica.
Nell’ottenere consenso fra i giovani vi è anche la responsabilità di trasmettere determinati messaggi. Vivi questa delicata responsabilità?
Abbastanza. Diciamo però che se mi preoccupo troppo comprometto quella che poi dovrebbe essere la mia musica. Ciò non significa che non controlli sempre quello che scrivo, perché tengo sempre presente che determinata gente, soprattutto i più giovani, mi ascolta; però cerco comunque di non farlo troppo perché altrimenti non sarebbe più naturale, non sarebbe più la mia musica.
Ma è allora così indispensabile mettere nei testi imprecazioni e torpiloqui, riferimenti alle droghe e allo sballo, al lusso e a una vita esteriormente ‘facile’?
Non è indipensabile. Ognuno parla di quello che vuole, di quello che vive e chi vuol fare ‘scena’ anche di quello che non vive. È vero certo che spessissimo escono questi argomenti, e in questo ci si omologa un po’ tutti. Ma ho scoperto rapper che parlano di tutt’altre cose, di letteratura per esempio, come Murubutu, insegnante peraltro in un liceo in Italia, che cita scrittori, racconta storie, e ciò mi appassiona.
Possiamo allora dire che il rap non è solo un dar voce al ‘disagio’? Penso agli esponenti italiani di Cinisello e delle periferie.
Nato come forma di protesta oggi ha tutto un suo nuovo contesto. È tuttora portavoce di un disagio, ma molto meno, si è un po’ persa quella denuncia sociale che c’era una volta.
Che musica ascolta Mattak? Solo rap? Quanto è importante per un musicista aprirsi al repertorio mondiale musicale?
Tantissimo! Io ascolto di tutto. Ascolto il punk rock commerciale di dieci anni fa come ascolto l’electroswing, ovvero un mix fra house e swing degli anni Venti. Inspirandosi a diversi generi musicali si possono creare nuove cose che nel rap non si sono mai sentite, nuovi generi come quelli che stanno uscendo ultimamente. È, dunque, importantissimo prendere spunto da diversi generi o ritmi o approcci, su come entrare su una base per esempio. Confrontandoti con altro ti si apre un mondo. Se ascolti solo rap sei un po’ limitato.
C’è una canzone in tutta la storia della musica che avresti voluto scrivere?
(Ci pensa un po’ poi ci risponde, ndr) Adesso non mi viene, ma probabilmente ce l’ho.
Perché il mondo rap è ancora ad appannaggio soprattutto degli uomini?
Devo dire che stanno uscendo donne brave. Certo, se avviene, fanno ancora notizia... Una brava svizzera è Martina. Secondo me è la miglior rapper italofona che abbia mai sentito.
Quanto vivere in una realtà piccola come il Ticino può limitare una carriera?
A Milano avrei avuto un’intera rete... Tanti artisti si trasferiscono lì alla ricerca di contatti. Vivere qui limita tantissimo, perché da una parte c’è la Svizzera tedesca e dall’altra l’Italia, e noi in mezzo, in una terra spesso ignota. Per farsi conoscere non basta, infatti, mettere pezzi su Youtube, bisogna mettere il becco fuori, partecipare ai concerti, incontrare gente. Qui siamo ‘chiusi’.
Le rime. Dove trovate l’estro e lo spunto?
Bisogna allenarsi... Ho iniziato con il freestyle. All’inizio mi sembrava impossibile comporre delle rime a tempo. Poi piano piano le hai tutte in testa. I libri aiutano. Avvicini le parole, le raggruppi e cerchi di combinarle e dar loro un senso. Ognuno poi ha il proprio stile. Io sono ossessionato dalla metrica, nel tempo di una rima devo chiuderne sei, altrimenti non sono contento. E poi voglio raccontare qualcosa. Anche Eminem lo fa.
In questi giorni è in lavorazione un tuo nuovo disco. Dico bene?
Esatto, ci sto lavorando da un po’. Sono abbastanza soddisfatto. Sto cercando di trovare la mia autorità artistica, rendendo unico il mio lavoro. La soglia di attenzione di un ascoltatore si sta abbassando drasticamente perché ogni giorno escono musicisti nuovi e una canzone non dura più due mesi ma dura una settimana, perché la settimana dopo c’è già l’altro che ne ha composta un’altra. Un disco si compone così in media di nove tracce, album ufficiali che una volta ne avevano quindici.
Da dove viene il tuo nome d’arte molto particolare, Mattak?
L’ho scelto perché è il mio soprannome da quando ero un bambino. Un giorno, mentre mi chiedevo che alias scegliermi, ho pensato di utilizzarlo anche per la mia carriera musicale.
Recentemente la scena musicale rap ha registrato alcune improvvise e tragiche morti di giovanissimi cantanti. Il binomio genio-follia, genio-sregolatezza, ha colpito ancora una volta il mondo delle note.
Mac Miller, morto per sospetta overdose, porco cane, lui è stato storico! Conosciutissimo e unico, era proprio un genio, faceva le basi e suonava il piano, rappava. Scriveva un pezzo al giorno e poi quando aveva quaranta pezzi, scremava, prendeva i migliori e faceva un album. Quando io per un pezzo, se non sono stimolato, ci metto magari un mese... Oppure XXXTentacion, scomparso tragicamente lo scorso giugno, ucciso in Florida durante una sparatoria: anche lui un genio. In America ci sono ancora le gang rivali, quelle vere. E lui, purtroppo, si è trovato in mezzo.