La nomina abortita di Foa a presidente della Rai, ovvero: il servizio pubblico come terreno di scontro tra partiti e correnti.
“Menomale che Silvio c’è” scriveva nel 2002 il cantautore Andrea Vantini in onore del suo amico di Arcore, ispirandosi (dice) a Giacomo Leopardi. “Menomale che Silvio c’è” cantavano qualche anno dopo, con sdolcinata ammirazione e su melodie da balera romagnola i seguaci del Cavaliere. “Menomale che Silvio c’è” deve essersi detto Marcello Foa negli anni in cui vergava per ‘Il Giornale’ di berlusconiana proprietà articoli in linea con gli orientamenti del suo editore. “Meno male che Silvio c’è” devono aver infine canticchiato negli scorsi giorni, in momenti di rara spavalderia dopo anni di batoste elettorali, le sempre più ristrette schiere di elettori progressisti.
Sì perché se l’irresistibile ascesa dell’ex amministratore delegato della Timedia Holding tanto irresistibile non è stata, è unicamente per l’intervento di Silvio Berlusconi. Che ha bloccato la nomina di Foa a presidente della Rai, bocciandola in commissione di vigilanza. Regalo insperato per i nemici (tanti) del giornalista italo-svizzero, al quale viene imputato uno stillicidio di “bufale” giornalistiche, di produzione e condivisione di teorie complottistiche nonché di messaggi al vetriolo contro i suoi avversari ideologici e politici (tra cui il presidente Mattarella, nei confronti del quale Foa ha manifestato “disgusto”).
Ma se Silvio è intervenuto a gamba tesa non lo ha fatto certamente per sottolineare una sua particolare idiosincrasia per le fake news. Il suo bersaglio non è infatti Marcello Foa. È Matteo Salvini. Il ministro degli Interni sponsor di Marcello Foa (e nel cui team è attivo il figlio del candidato alla presidenza della Rai). Come già segnalato in queste colonne, in corso non vi è una battaglia per la qualità giornalistica o per l’indipendenza del servizio pubblico. Il conflitto riguarda unicamente l’egemonia all’interno dell’area centrodestra/destra, tra un cavaliere in declino anagrafico e politico e un focoso e giovanile leader leghista, spinto da un impetuoso vento in poppa alimentato da una diffusa, reale frustrazione sociale e da una altrettanto diffusa xenofobia. In altre parole: il servizio pubblico come terreno di scontro tra partiti e correnti.
Lo scorso anno il vicepremier pentastellato Di Maio aveva brevemente indossato l’elmo dell’ateniese Pericle per proporre in chiave anti-lottizzazione l’estrazione a sorte ai posti chiave della Rai dei migliori candidati, scremati dopo rigidi criteri di preselezione. Indubbiamente un’ottima idea (che potrebbe far strada oltre gli italici confini). Insomma, l’Italia che riscopre le virtù della democrazia ateniese per cancellare corruzione, voti di scambio, partitocrazia, favoritismi, nepotismi.
Nulla di tutto questo è successo. Passata la festa, gabbato lo santo. Altro che meritocrazia. Dal cassetto Salvini, Di Maio, Berlusconi estraggono il vecchio caro manuale Cencelli (forse un po’ stropicciato, negli anni è passato in molte mani, da destra a sinistra). In una gattopardesca messinscena, tutto ritorna alla normalità: i camaleonti fiutano l’aria, ci si posiziona dalla parte più opportuna in funzione dei possibili vincitori, gli insulti fanno le copertine dei giornali, si fa parlare di sé con frasi choc pensate ad arte dai professionisti della comunicazione. Gli anti-establishment non hanno atteso a lungo per creare un loro proprio establishment da difendere coi denti. La meritocrazia viene insabbiata ed è in fondo il momento migliore per farlo, proprio quando l’Italia sudacchiata è tutta sulle spiagge, un po’ stanca, un po’ arrabbiata, forse un po’ indifferente e certamente sempre più rassegnata.