Il caso Kering/Gucci ci riporta alla dura realtà: lo sviluppo economico del Ticino non può poggiarsi solo su pratiche fiscali corsare
La fine dei regimi fiscali speciali, riservati dalla legislazione svizzera e non solo alle società holding e di sede, è equivalente – fatte le debite proporzioni – alla fine del segreto bancario: un fattore competitivo legale fino all’altro ieri che viene a mancare, neanche tanto improvvisamente, portando con sé imprese che hanno fatto dell’ottimizzazione fiscale ‘estrema’ la loro unica ragione sociale. Questo non vuol dire – e in ciò concordiamo con Marina Masoni, presidente di TicinoModa – che l’intero settore legato alla gestione dei brand internazionali del lusso sia in pericolo o scomparirà del tutto. Il settore – o la ‘fashion valley’ come è stata pomposamente definita la moda in Ticino – non è solo Gucci. Ci sono altri grandi marchi che hanno deciso di insediarsi al Sud delle Alpi e che da qui coordinano le strategie di sviluppo: Guess e Hugo Boss, per citarne alcune.
Le future condizioni fiscali per questo tipo di società saranno sì inasprite, ma la Svizzera rimarrà comunque molto attrattiva nel contesto internazionale. Il Ticino un po’ meno, ma non è questo il problema. Non è solo l’aliquota fiscale che rende un territorio più o meno attrattivo dal punto di vista imprenditoriale. Sono altre le condizioni quadro (formazione, infrastrutture e una buona amministrazione pubblica) sulle quali puntare per creare le condizioni ideali che permettano ad aziende di nascere, insediarsi e crescere. Certamente la partenza delle attività logistiche di Kering ridimensionerà un comparto cresciuto fino a qualche anno fa senza troppi clamori, il quale generava un importante gettito (tra imposte sugli utili e quelle alla fonte) che non ci sarebbe mai stato senza i famigerati ‘tax ruling’, specifici accordi fiscali tra aziende e amministrazione, ora messi al bando dalla comunità internazionale. Non è chiaro a quanto ammontasse tale gettito: secondo stime verosimili, tra gli 80 e i 100 milioni di franchi. Importo che tiene conto della tassazione globale (Cantone, Comuni e Confederazione) e che ha trasformato il settore della moda nel primo contribuente del Ticino. Un primato conquistato anche a causa del ridimensionamento del settore bancario che è stato per decenni il campione assoluto di questa speciale classifica.
La domanda che ci si pone legittimamente è se è valsa la pena ‘svendere’ il territorio per qualche milione di franchi in più di imposte, generando centinaia di impieghi occupati in gran parte da lavoratori frontalieri, ma anche una cultura aziendale a dir poco corsara (il caso dei manager ‘globalisti’ di Lgi, per giunta solo fittiziamente residenti è emblematico e rende bene la logica di rapina e di ‘shopping’ giuridico sottostante) oltre a decine di brutti capannoni.
Dal punto di vista di Kering, lo ricordiamo, una multinazionale che mira legittimamente al profitto, il Ticino è un puntino sulla cartina del risiko globale: interessante fino a quando era possibile – grazie alle norme tributarie – trasferirvi gran parte degli utili del gruppo. Ora non più. Da centro di profitto, senza più la ragione fiscale le sedi ticinesi di Kering diventerebbero centri di costo. Tanto vale, a questo punto, spostare là dove si produce anche questa attività a basso valore aggiunto, come dice chi parla bene.
Si spera che la lezione Kering non sia vana. Prima di fare ponti d’oro a chi promette magnifiche sorti e progressive grazie ai fantasmagorici ‘metasettori’ (fashion valley, fintech, criptovalley eccetera), chi è chiamato a governare questo Cantone si fermi a ragionare oltre l’orizzonte temporale della sua carica politica e pensi sempre che siamo sì uno splendido angolo di mondo, ma pure sempre troppo piccolo per incidere su dinamiche che ci sfuggono.