È il quesito insito nella serie ‘pirandelliana’ adattata dal libro omonimo dall’autore Charles Yu e prodotta da Taika Waititi (su Disney+)
Avete presente la sensazione di essere solo delle comparse in un film girato nel vostro quartiere, che la vostra vita sia predeterminata e non potete fare niente per cambiarla? Ecco, ‘Interior Chinatown’ parla di questo. Di come Willis, cameriere trentenne in un ristorante cinese, non riesce a diventare il protagonista della serie che vorrebbe – pur essendo, in realtà, il protagonista di Interior Chinatown. Se Willis prova a entrare in un posto dove non dovrebbe, le porte non si aprono. Se prova a inserirsi in una discussione che non lo riguarda, viene ignorato, è come se non ci fosse. Willis non può essere nient’altro che il cameriere di un ristorante cinese, al massimo il ragazzo delle consegne, di quel ristorante cinese.
Questo è il punto di partenza di ‘Interior Chinatown’, adattata dal libro omonimo dall’autore Charles Yu e prodotta da Taika Waititi, che ne ha diretto anche il primo episodio (su Disney +). Per raccontare una storia del genere, ‘Interior Chinatown’ usa lo strumento della meta-narrazione: Willis (interpretato da Jimmy O. Yang) è letteralmente parte di una serie tv crime tipo ‘Law & Order’, come semplice comparsa. L’agente di cui a un certo punto diventa informatore, Detective Lee (Chloe Bennet), non può essere niente di più che una personaggio di accompagnamento per i due veri protagonisti, inserita nella storia come “esperta di Chinatown” solo perché di origine vagamente asiatica. È come se fossero membri inconsapevoli del cast: lontani dalle telecamere vivono le loro vite insignificanti che prendono senso solo quando interagiscono con Green e Turner, la coppia di detective sexy. Quando arrivano Green e Turner la luce si fa bluastra e si sente una musica d’atmosfera drammatica, quando se ne vanno intere strade rimangono al buio e le luci del ristorante tornano gialline.
Il meccanismo funziona su più livelli, inganna al tempo stesso anche noi spettatori: senza esserne consapevoli stiamo guardando una serie tv datata, ambientata in un generico passato di macchine senza servosterzo e telefoni col filo, piena di banalità e stereotipi sugli asiatici. Mano a mano che gli episodi vanno avanti Willis diventa consapevole di essere in una specie di Truman Show e prova a ribellarsi. Comincia a indagare, insieme a Lee, altrettanto insoddisfatta del suo ruolo minore e bisognosa dell’aiuto di un vero “esperto di Chinatown”.
Come ci si ribella a una vita già scritta? Come si cambia una sceneggiatura in cui ci sentiamo stretti? Willis non manda tutto all’aria, non tocca il cielo dipinto come Truman Burbank. Non prova, cioè, a smascherare un inganno universale – nella prima parte, almeno, ‘Interior Chinatown’ è una serie meno paranoica di quanto non fosse il film del 1998 con Jim Carrey, anche se poi prende una piega più oscura – ma decide di muoversi nelle zone grigie del regolamento del gioco. Se le porte del distretto di polizia non si aprono quando prova a entrare normalmente, Willis ha la buona idea di prendere un po’ di cibo dal ristorante in cui lavora e fingere una consegna. A quel punto le porte si aprono e il sergente all’ingresso non ci vede niente di strano nella sua presenza: se il mondo ti vede come un ragazzo delle consegne, allora fingiti tale. Nel frattempo, però, Willis porta avanti la sua indagine, trasforma la sua vita – recitando un altro ruolo disponibile a un asiatico in tv: l’informatico del distretto – prende in mano la narrazione, come si dice.
‘Interior Chinatown’ ricorda da vicino ‘Everything Everywhere All At The Same Time’, il film che due anni fa ha vinto l’Oscar, e non solo per il cast asiatico. Anche lì i personaggi erano stretti nelle loro vite, in un matrimonio senza amore e nel lavoro noioso di una lavanderia a gettoni. In quel caso era la fantascienza a offrirgli una via d’uscita. Con la teoria delle stringhe e delle infinite realtà parallele alla nostra, i personaggi potevano accedere ad abilità di altri mondi, diventare agenti segreti, esperti di arti marziali, personaggi molto più affascinanti e decisi di quanto non fossero nella loro realtà. Anche ‘Everything Everywhere All At The Same Time’ era un dramma familiare, una storia di riconciliazione intergenerazionale, raccontata però come un film d’azione e con l’ironia di ‘Rick & Morty’ (un universo dove gli umani hanno dei wurstel al posto delle dita: come gli è venuto in mente?). ‘Interior Chinatown’ usa lo stile delle serie tv poliziesche e dei film di kung fu per affrontare lo stesso tema: il disorientamento culturale e identitario dei figli di immigrati asiatici. Anche Willis in fin dei conti vuole sistemare i conti con il passato della propria famiglia, emanciparsi e al tempo stesso riconquistare l’affetto del padre, un maestro di kung oggi depresso, che preferiva il figlio maggiore, più atletico e carismatico di Willis.
In ‘Interior Chinatown’ (il titolo rimanda all’ambientazione in una sceneggiatura) è impossibile separare la realtà di Willis e quella della finzione televisiva di cui suo malgrado fa parte, lui stesso si comporta in modo stereotipato senza rendersene conto. Molti dei personaggi sono insoddisfatti del ruolo che gli è stato assegnato. La madre di Willis vuole mettersi il dolore del primo figlio scomparso alle spalle, diventando agente immobiliare, ma le persone intorno a lei la scoraggiano. Oppure, al contrario, altri personaggi vivono con timore la possibilità del cambiamento. Fatty, il migliore amico di Willis – la sua spalla, anche se Willis, in uno dei tanti momenti in cui rompe la quarta parete, gli dice che “i camerieri non si meritano una spalla” – prova a convincerlo che la loro vita quotidiana è perfetta così com’è, lavorare al ristorante, fumare canne e giocare ai videogiochi, fino alla morte. Col passare degli episodi la serie si fa più oscura, la splendida luce notturna si fa più minacciosa, Chinatown diventa misteriosa mano a mano che Willis indaga sulla sparizione del fratello, e si perde un po’ la leggerezza dei primi episodi.
Chinatown in cerca di autore, insomma. Pirandello riscritto da una generazione cresciuta con la tv sempre accesa in casa e i videogiochi – e che, forse, replica Pirandello senza averlo letto. Il tema novecentesco dell’uomo in pezzi, la messa in discussione dell’identità (ma senza psicanalisi, o inconscio) è tornato rilevante nell’America che prova a liberarsi dagli stereotipi razziali ed entrare finalmente in un secolo tutto nuovo.