Arte

Addio al critico Germano Celant, padre dell'arte povera

Celant è morto oggi a Milano di nuovo coronavirus. Il lutto dell'amico Michelangelo Pistoletto, anche lui positivo al Covid-19

Germano Celant e Michelangelo Pistoletto alla galleria Lévy Gorvy
29 aprile 2020
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“Se ho capito qualcosa della vita lo devo al biliardo”, diceva Germano Celant. Era il suo modo per raccontare una carriera eccezionale, partita da Genova, la città che gli aveva dato i natali nel 1940, e poi srotolata nel mondo, dalle prime importanti esperienze nella Torino degli anni Sessanta all'America, che era diventata un po' la sua patria insieme a Milano, alle mostre curate in tutti i musei più importanti del mondo dal Guggenheim di New York al Beaubourg di Parigi, la Biennale di Venezia.

Definirlo “critico d'arte è restrittivo – spiega Michelangelo Pistoletto, amico e sodale nella grande avventura di quel movimento artistico e intellettuale che è stata l'arte povera – lui non si limitava a criticare l'arte, piuttosto creava insieme a noi”. Senza di lui che ne fu il teorico, l'arte povera semplicemente non sarebbe esistita. Tant'è, la definizione che fece poi la fortuna critica del genovese Celant, studi di arte e letteratura a dispetto del padre impiegato che lo sognava ingegnere, arrivò in occasione di una mostra rimasta storica, allestita proprio a Genova nella galleria La Bertesca, nel 1967.
Diventò la definizione di un movimento artistico che rifiutando l'arte patinata di quegli anni arricchiti dal boom economico e in generale i valori culturali legati a una società organizzata e tecnologicamente avanzata, mirava al recupero dell'azione, del contingente, dell'archetipo come sola possibilità dell'arte. Nel gruppo di artisti che si riconoscevano in questa battaglia c'erano nomi che hanno fatto la storia dell'arte italiana del dopoguerra, personalità anche molto diverse tra loro, da Michelangelo Pistoletto, appunto, ad Alighiero Boetti, da Luciano Fabro a Mario Merz, o Kounellis, tanto per citarne alcuni.
Il ricorso a materiali poveri (gli stracci di Pistoletto con la sua celeberrima Venere, i ricami di Alighiero Boetti, i legni di Penone) in qualche modo antiartistici si poneva per loro come presa di coscienza delle tante possibilità espressive insite nella materia vegetale, animale, minerale, o persino in un processo mentale elementare.

Autorevole e istrionico, sempre vestito di nero, una grande chioma argentea a incorniciare il volto fino all'ultimo giovanile, i giubbotti di pelle che ne tradivano l'amore per il rock e per la cultura americana, Celant in realtà rifiutava la definizione di "padre dell'arte povera". "Non ho inventato niente - spiegava in una intervista del 2017 ad Antonio Gnoli di Repubblica- arte povera è una espressione così ampia da non significare nulla . Non definisce un linguaggio pittorico , ma un'attitudine, la possibilità di usare tutto quello che hai in natura e nel mondo animale. Non 'è una definizione iconografica di arte povera".

In quasi sessant'anni di carriera, punteggiata da oltre 50 pubblicazioni, Celant ha organizzato e curato mostre in tutto il mondo, dal Guggenheim di New York di cui è stato a lungo senior curator, al Centre Pompidou di Parigi, è stato curatore della Biennale di Venezia nel 1997, ha lavorato per la Royal Academy of arts di Londra, per palazzo Grassi a Venezia. A Firenze è stato direttore della prima Biennale di Arte e Moda. Era direttore artistico della Fondazione Vedova a Venezia e dal 2015 aveva assunto la direzione artistica di Fondazione Prada a Milano. Critico d'arte ma anche talent scout di artisti, intellettuale con una grande sensibilità per la moda. Ancora attivissimo, stava curando per Pistoletto un catalogo ragionato della sua opera, ed era tornato poco più di un mese fa dagli Usa dove era stato per l'Armory Show. Proprio al rientro a Milano, i primi sintomi di Covid. Ricoverato al San Raffaele, racconta l'amico Pistoletto anche lui passato per l'esperienza del coronavirus, era stato a lungo in rianimazione, poi come è successo a tanti, quando sembrava che si fosse ripreso, sono arrivate complicazioni fatali.

La malattia di Pistoletto: ‘Ho sperimentato il vuoto’

"Un'esperienza che non avevo mai pensato di poter provare. Se ne vieni fuori, come fortunatamente è capitato a me, devi pensare che sia stata utile". Ottantasette anni da compiere a giugno, Michelangelo Pistoletto è appena tornato nella sua casa di Biella, convalescente, dopo quattro settimane passate nell'ospedale della sua città. Anche lui è stato colpito dal coronavirus come Celant, suo fraterno amico, tra l'altro più giovane di sette anni, che purtroppo non ce l'ha fatta. "Sono felice di essere vivo, ma infelice della morte di Germano", confida in una conversazione con l'Ansa.
"Io sono stato più fortunato, sono stato preso in tempo e curato benissimo, i medici sono stati davvero straordinari". Domani si sottoporrà a un nuovo tampone che si augura negativo.

Intanto, nel dolore per la perdita dell'amico ("Le nostre mogli si sentivano per telefono, Germano era a Milano io a Biella, ma sono rimaste sempre in contatto") ripensa all'eccezionalità dell'esperienza vissuta. "Nel letto di ospedale, senza la possibilità di essere assistito da mia moglie, da un parente, ho sperimentato il vuoto", racconta. Un vuoto però, ragiona Pistoletto, "che esiste ed è fondamentale per creare, ma che noi, nella vita convulsa dei nostri tempi, cerchiamo sempre di coprire". Per lui, invece, proprio quel vuoto è stato un elemento fondamentale nella ricerca creativa degli ultimi decenni, del celebre simbolo del Terzo Paradiso, della città dell'arte che ha fondato a Biella e nella quale ha fissato anche la sua dimora e il suo laboratorio.