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L’Isola di Pasqua e il collasso che forse non c’è stato

Una nuova ricerca mette in dubbio l'ecocidio provocato dall'eccessivo sfruttamento delle risorse naturali per la costruzione dei celebri moai

(keystone)
22 giugno 2024
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L’Isola di Pasqua non è famosa solo per le centinaia di enormi statue, i celebri moai. L’isola è infatti spesso citata come esempio di collasso di una civiltà: si ritiene infatti che i primi abitanti di quest’isola, arrivati dalla Polinesia un migliaio di anni fa, sfruttarono le risorse naturali dell’isola, in particolare le foreste che ricoprivano buona parte della superficie, arrivando così a una crisi ecologica e demografica divenuta un monito a sostegno dello sviluppo sostenibile. Degli almeno diecimila abitanti – ma alcune stime triplicano questo numero – nel momento di massima espansione (e sfruttamento), si sarebbe così arrivati al migliaio che, in una terra arida e desolata, trovarono gli europei quando “scoprirono” l’isola nel 1722 (per la precisione il giorno di Pasqua del 1722, da cui il nome con cui conosciamo quella che i primi abitanti chiamano Rapa Nui). In questa ricostruzione c’è tuttavia un piccolo problema: le cose potrebbero essere andate molto diversamente e la storia dell’Isola di Pasqua è sì di esempio, ma non di un collasso ecologico provocato dagli esseri umani.

La (presunta) crisi ecologica e demografica dell’Isola di Pasqua è stata popolarizzata da Jared Diamond nel suo best seller ‘Collasso’ del 2005. In quel libro un lungo capitolo è dedicato a Rapa Nui, perché – come scrive Diamond – l’isola è “un chiaro esempio di società che si autodistrusse attraverso lo sfruttamento eccessivo delle sue risorse” e i paralleli con la nostra società moderna “sono così ovvi da apparirci agghiaccianti”. Ma l’idea di un qualche declino della civiltà dell’Isola di Pasqua risale già ai primi esploratori europei e al loro stupore di fronte alle centinaia e centinaia di moai: sembrò infatti impossibile che, a scolpire e soprattutto a trasportare quelle statue, fossero stati i pochi abitanti presenti sull’isola. Tralasciando le ipotesi più strampalate – come per le piramidi egizie, ci fu chi teorizzò l’intervento di civiltà aliene –, la spiegazione più ovvia fu che, appunto, l’Isola di Pasqua ospitasse una popolazione ben più ampia, come detto fino a trentamila persone, con una organizzazione sociale complessa che è stata in grado di elevare un migliaio di moai ma non di sfruttare in maniera sostenibile le risorse naturali della piccola isola vulcanica (Rapa Nui ha una superficie di 160 chilometri quadrati, meno della metà del Sottoceneri). A sostegno di questa ricostruzione, diversi ritrovamenti archeologici, tra cui tracce di polline che indicano come un tempo la superficie dell’isola fosse ricoperta da foreste, verosimilmente abbattute per realizzare le infrastrutture necessarie per trasportare i moai oltre che canoe con cui andare a pesca.

Una narrazione sbagliata

Solo che questa ricostruzione non è così ragionevole come sembra e anzi si baserebbe su un pregiudizio vero le popolazioni extraeuropee. Ne è convinto Carl Lipo della Binghamton University, uno degli autori di uno studio recentemente pubblicato su ‘Science Advances’ (Island-wide characterization of agricultural production challenges the demographic collapse hypothesis for Rapa Nui). Come spiegato in un incontro con la stampa, l’errore di partenza è pensare che la realizzazione dei moai richieda una società di tipo occidentale – un’idea che ha orientato le ricerche successive, interpretando le varie tracce come prove di una civiltà collassata.

Secondo lo studio appena pubblicato, sull’isola non sono mai vissute più di tre o quattromila persone e, soprattutto, la popolazione non ha mai sfruttato eccessivamente le risorse naturali. Il primo punto è proprio la valutazione di queste risorse. Al contrario delle isole polinesiane (lontane diverse migliaia di chilometri) dalle quali arrivarono i primi abitanti, Rapa Nui non ha lagune o barriere coralline che facilitano la pesca: il mare era certamente una fonte di cibo importante, ma non decisiva e certamente non in grado di sfamare venti o trentamila persone. Lipo e coautori hanno quindi guardato a terra e anche qui ci sono brutte notizie: l’Isola di Pasqua non è particolarmente fertile. Le eruzioni vulcaniche che hanno portato alla formazione dell’isola sono infatti cessate centinaia di migliaia di anni fa e i nutrienti minerali portati dalla lava – che rendono ad esempio fertili le Hawaii o Tahiti – sono state erose dal vento e dalle piogge, peraltro meno abbondanti rispetto alle isole tropicali. In questa situazione tutt’altro che idilliaca, la popolazione ha usato quello che aveva a disposizione per la coltivazione: le rocce vulcaniche. Il termine tecnico è “pacciamatura litica”, in pratica si tratta di utilizzare sassi di varie dimensioni per proteggere il terreno dell’erosione oltre che come fertilizzanti inorganici. La ricerca alla quale ha lavorato Lipo si basa proprio sull’estensione di questi “giardini rocciosi”: partendo da analisi sul campo è stato addestrato un modello di intelligenza artificiale che ha successivamente analizzato immagini satellitari. In questo modo è stato possibile distinguere i terreni utilizzati per la coltivazione da altre superfici ricoperte di sassi, ad esempio strade. Si è così scoperto che la superficie coltivata è meno estesa di quello che risultava da precedenti rilevamenti: sufficiente, secondo le stime, a nutrire una popolazione di non più di quattromila persone.

Un esempio virtuoso

Parafrasando Mark Twain, si può dire che le notizie del collasso ecologico dell’Isola di Pasqua sono grossolanamente esagerate – e anzi abbiamo indizi che prima dell’arrivo degli europei la popolazione è riuscita a far fronte a risorse limitate in maniera oculata. Anche la deforestazione, come ha spiegato Lipo, rientra in questa strategia: gli alberi presenti sull’isola sarebbero infatti stati abbattuti, peraltro senza portare tragiche conseguenze climatiche, semplicemente per far posto alle coltivazioni, non per sfruttarne il legname. La crisi demografica di Rapa Nui è arrivata solo dopo l’incontro con gli europei che hanno portato malattie prima sconosciute e utilizzato l’isola come serbatoio di schiavi.

Il passato di Rapa Nui non è dunque un esempio di ecocidio, ma l’esatto contrario – oltre che un richiamo a come pregiudizi e preconcetti possano influenzare la nostra visione del mondo.

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