La scuola che verrà’, giusto per riprendere il titolo che il Decs ha voluto dare al proprio progetto riformatore, dovrebbe saper trasmettere un sapere che “non significa solo accrescere le conoscenze, potenziare la propria istruzione, ma anche e soprattutto imparare ad aprirsi all’apertura del desiderio, aprire attraverso questa apertura altri mondi rispetto a quelli già conosciuti” come sostiene Massimo Recalcati nel recente e fortunato volumetto ‘L’ora di lezione’. E per arrivare a tanto, tutti sanno che la vera riforma passa attraverso le parole dell’insegnante. Le parole, e non altro, strumento capace di trasmettere il desiderio. Al punto che una sola ora di lezione, aggiunge lo psicoanalista milanese, può cambiare la vita. Il progetto di riforma della scuola dell’obbligo ticinese presentato ieri potrebbe modificare se non proprio la vita degli adulti di domani, almeno la qualità della formazione primaria. Che non è poco. Su tutto un concetto ci pare contenga il seme della riforma: la responsabilità del docente, in un mondo più complesso. Tutta da reinventare, magari ripartendo da quell’alleanza generazionale genitori-insegnanti che ha permesso la crescita non solo scolastica d’intere generazioni. In una società dove l’io e l’altro interagiscono costantemente, la scuola deve saper dare a tutti un’eguale formazione senza perdere mai di vista la variegata differenziazione (delle culture, delle possibilità, dei difetti, delle qualità individuali). Una nuova modalità d’approccio, dove l’istituto scolastico acquista più autonomia organizzativa e, al contempo, dove il docente ritorna punto di riferimento della Parola e dunque del sapere. Senza eccessive rigidità formali. Da qui la volontà di abolire, alle Medie, gli attuali ‘livelli’ (sostituiti dalle parole consapevoli), come di flessibilizzare la griglia oraria. E va sempre in questa direzione lo stimolo a una maggior cooperazione fra i docenti, la legittimazione di nuove didattiche, l’abolizione delle valutazioni aritmetiche e fredde, la maggior autonomia dei singoli istituti con aumentata responsabilità per i direttori. La proposta di riforma, ci piace pensare, vuole una scuola che “non pretende di spiegare la vita con le lettere dell’alfabeto, ma invita i suoi allievi a impossessarsene per nominare il mistero della vita senza presumere mai di giungere a governarlo” (vedi l’autore sopraccitato). Trasmettendo magari al contempo il sentimento che sbagliare, inciampare, è parte del processo didattico; di più, strumento di crescita non solo professionale. La vera sfida, a questo punto, procede su due fronti: interno ed esterno alla scuola. Da un lato coinvolge gli insegnanti e la loro capacità (nonché volontà) di rimettersi in gioco, riappropriandosi del motore, dell’energia che muove il desiderio (proprio e altrui), dall’altro l’intera società ticinese – politica compresa – che dovrebbe finalmente aprire le porte e i cuori all’alterità. Perché non c’è scampo: il futuro lo prepariamo oggi e solo nel confronto col diverso raggiungiamo un processo superiore d’integrazione formativa. Anche per far fronte alle nostre fragilità. Non solo tecniche.