Scrivere di Bob Dylan è un atto che riporta ai tempi della scuola, a una di quelle domande da interrogazione alle quali non si sa da dove partire. Una cosa tipo “parlami dell'Impero Romano”. Ma per conoscere tutto di lui, in libreria c'è tutta una letteratura di analisi ed approfondimenti degna di Shakespeare. Nato Robert Zimmermann (classe '41), l'artista ha cercato di ridimensionare quel ruolo di innovatore che la storia gli attribuisce, sottolineando recentemente di avere “soltanto aperto una porta differente in maniera differente". In verità, gli si deve la definizione stessa di cantautore (songwriter), tanto che il Premio Pulitzer, per il valore poetico delle sue composizioni, si è scomodato per lui nel 2008.
Per capire il Menestrello del Rock si parta pure da dove si vuole, e si arrivi dove si preferisce. Tutte le strade – almeno per questa settimana – portano a Locarno, dove – a fargli gli onori di casa – c'è Ben Harper, californiano multiorigine, 3 volte Grammy (l'ultimo giusto un anno fa) che scalda Piazza Grande con i ritrovati Innocent Criminals, sette anni dopo la scissione. In t-shirt NASA (forse in celebrazione del Plutone rivelato), Harper apre con “Diamonds on the inside” per decollare rapidamente su “Glory and Consequence”, “Burn to Shine” fino a “Homeless Child”. Gasatissimo dalle affinità con il maestro (“sono felice di avere lo stesso numero di lettere nel nome”), Harper chiude in splendido crescendo, con “Roses from my friends”, “Amen Omen” e “Better way”.
E siamo all'atto principale. Non un “buonasera”, un “grazie”, neppure un “ciao ciao”, ma i devoti del maestro lo sanno. Un distacco al quale contribuiscono le consuete precauzioni (divieti) che i media ben conoscono (no-audio, no-video, no-foto, no-varie ed eventuali), alle quali si aggiunge pure il black-out imposto ai maxi schermi, e un'illuminazione da garage di notte, senza finestre. La lunga carriera fa sì che la successione temporale dei brani sia una montagna russa, con momenti di sosta soltanto su “Tempest”, album del 2012 dal quale Dylan esegue in modo particolarmente ispirato “Duquesne Whistle” e “Pay in blood”, con i 5 elementi in semioscurità che danno il meglio di sé. E' il Bob Dylan da Oscar ad aprire con “Things have changed” (best original song 2001 per il film “Wonder Boys”), poi indietro al 1965 per “She belongs to me” da “Bringing it all back home” e balzo in avanti al 2009 per “Beyond here lies nothin'”. Altro dietrofront al 1962 per “Don't think twice it's all right”, interpretata da buona parte del mondo country, primo atto di un Dylan pianista che tale resterà (seduto) per gran parte della serata. Un accenno dall'ultimo cd “Shadows in the night” a “Full moon and empty arms” (uno dei molti atti di stima per Sinatra negli anni), prima di “Visions of Johanna”, forse il momento più caldo di una scaletta che scorre prevedibile sino all'unico striminzito bis, “All along the watchtower”, dopo il quale ci si attenderebbe il malcontento (o almeno un po' di delusione) di una piazza, che – al contrario – pacifica rincula verso alberghi e parcheggi.
Nessun mugugno, dunque, forse perché - tornando all'Impero Romano - il monumento è il monumento, e uno sguardo non glielo si nega mai. Espletata la pratica Menestrello, altri tre giorni di Moon & Stars ci attendono, a partire da domani (Juanes) fino a sabato (Litfiba), passando per un venerdì di Stress...