Hanno suscitato parecchio interesse e anche diverse reazioni i servizi pubblicati sabato scorso e ieri con i quali abbiamo informato i lettori sulla circolare spedita da Swisscom ai suoi abbonati. Circolare con la quale si sottoponeva loro una ‘dichiarazione generale di protezione dei dati’ che, a ben guardare, serve al gigante blu della telefonia per poter finalmente utilizzare – attraverso la discutibile clausola del silenzio assenso – i tantissimi dati personali raccolti attraverso l’uso quotidiano che facciamo del telefonino e a farne a sua volta un commercio.
Diversi gli scritti giunti in redazione. In taluni casi le reazioni dei lettori sono state di sorpresa estrema, perché ignoravano completamente che qualcuno potesse immagazzinare tanto facilmente dati sul loro conto, seppur in modo anonimizzato. Sorpresa pure nel rendersi conto che coi dati, sempre resi anonimi, si possa poi fare del business. E che business! Certo che si può, altrimenti perché mai li si raccoglie? È del resto altrettanto certo che anche altri lo fanno, registrando per esempio le nostre abitudini di acquirenti: sia che abbiamo dato la nostra disponibilità al monitoraggio (spesso accordato senza restrizione alcuna) con per esempio una carta fedeltà di un negozio, sia che ciò avvenga tramite una carta di credito o altro ancora. Altri lettori ci hanno manifestato forti perplessità circa l’effettivo blocco dell’uso dei nostri dati qualora – chiamando il numero indicato sulla fattura o digitando sul sito – si è deciso di non accettare che le informazioni vengano utilizzate a fini pubblicitari. Verrà davvero rispettata la volontà? Altri ancora hanno fatto presente, facendo i conti in tasca a Swisscom, che il costo del richiamo è quasi raddoppiato da 20 a 30 franchi; infine, non è mancato chi non si è stupito di tutto ciò e ci ha chiesto dove stava il problema.
Il problema (ma che potrebbe anche non esserlo perché tutto dipende dalla sensibilità di ciascuno) è sempre il medesimo: essere informati nel modo giusto per riuscire a dare un consenso con cognizione di causa.
In questo caso è importante essere cogniti del fatto che, quali consumatori, ci troviamo all’epicentro di una nuova dimensione, determinata dalle sempre più potenti frontiere della tecnologia in grado di monitorare le mille tracce che noi stessi disseminiamo coi nostri comportamenti via telefonino. Presto ciò avverrà anche attraverso l’internet delle cose, che non sarà più solo il telefonino o il navigatore dell’auto. Ma anche il forno, il frigo, la lavastoviglie, tutti intelligenti, tutti messi in rete, e persino gli occhiali se li portiamo.
Le cose diventate ‘smart’ si metteranno a raccogliere dati su di noi. E noi – domanda centrale – accetteremo che ciò avvenga sistematicamente? E se accetteremo, ci verrà concesso di decidere se la raccolta di dati sarà gratuita o a pagamento? E come si farà a revocare il consenso? O a essere certi che i dati non vengano ammucchiati in barba al nostro divieto? Daremo il consenso illimitato o meno?
Domande queste che un recente libro di Alessandro Trivilini – che inizia oggi a curare una rubrica quindicinale sulla nostra pagina del sabato – tratta in modo accessibilissimo. Il suo volume si intitola ‘Internet delle Emozioni, la nuova frontiera della tecnologia’ (SalvioniEdizioni) con un’aggiunta appena sotto che dice tutto: ‘Il prodotto sono io. I soldi sono i miei dati personali. La privacy è il mio comportamento’. Più chiaro e attuale di così…